Prodotto da Adele Romanski e Barry Jenkins, presentato in anteprima alla Semaine a Cannes e poi a Roma, Aftersun della scozzese Charlotte Wells è un film toccato dalla grazia, un esordio che toglie il fiato, limpido, onesto, profondamente consapevole.
Il film racconta lo spazio breve di una vacanza al mare tra un padre e una figlia. Pur muovendosi nei solchi di un minimalismo essenziale della messa in scena, in cui le ellissi sono persino più significative di quello che davvero mostra e in cui i temi della costruzione dell’identità personale, del rapporto genitoriale e della dimensione formativa hanno un ruolo centrale, è tuttavia denso di riflessioni sulla persistenza delle immagini, sull’emergere dei ricordi, sullo scarto tra ciò che pensiamo di aver colto e quello che realmente abbiamo compreso.
I protagonisti sono Sophie, undicenne di Edimburgo e il padre Callum, che sta per compiere 31 anni. Siamo negli anni ’90 a Terremolinos in Turchia, in uno di quei resort all inclusive in cui tutto sembra essere già scritto: le escursioni, i bagni, gli incontri con gli altri, le cene romantiche, l’animazione.
Sophie e il padre hanno con sè una videocamera digitale, che diventa subito una protagonista silenziosa della loro vacanza. Soprattutto perchè pian piano ci accorgiamo di assistere non ad un film ambientato nel passato, ma ai ricordi di Sophie, ormai adulta, madre a sua volta, che rivedendo le immagini riprese un tempo ricostruisce nello spazio ingannevole della memoria un tempo probabilmente andato perduto.
Aftersun è uno di quei film in cui non sembra succedere nulla, in cui la dimensione ordinaria del racconto non lascia spazio per conflitti, riconciliazioni, viaggi dell’eroe o scene madri da antico melò. La sua storia sembra assomigliare a molte altre e al contempo è diversa da tutte, si illumina improvvisamente di una consapevolezza che gioca sapientemente con il cinema, con una maturità impensabile per un’opera prima.
Con una naturalezza disarmante, la Wells racconta una storia d’amore purissima, fatta di piccoli gesti, di sguardi complici e rivelatori, di telefonate nelle cabine, di musica pop da cantare e da ballare, di parole dolci che sembrano rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
Dietro i silenzi di Callum, dietro il suo tentativo di apparire come un padre amorevole c’è un’inquietudine che spalanca un abisso di domande e che Sophie forse coglie appieno solo da adulta. Il peso dell’inadeguatezza, personale e familiare, le fughe notturne verso il mare, le sigarette fumate di nascosto, una sessualità incerta sono tutti segnali che la piccola Sophie sembra riuscire a carpire istintivamente e che riemergono prepotentemente molti anni dopo.
La Wells non rinuncia a seminare inquietudine e incertezza, increspando la superficie di un racconto solo apparentemente lineare, ma che invece spalanca abissi di senso, restando sempre amorevolmente accanto ai suoi personaggi, avvolti di una compassione che esplode sullo schermo e che evidentemente si nutre di elementi autobiografici.
Eppure il film non ha mai un cedimento, mai un eccesso melodrammatico, sceglie invece di spezzare significativamente la storia dei suoi due protagonisti in tanti piccolo squarci espressionisti, costantemente riquadrando e limitando il nostro spazio di visione, come se stessimo assistendo ad immagini rubate alla loro intimità, frammentarie, incomplete, colte nello spiraglio di una porta che si apre, nella luce di una finestra socchiusa, nella polaroid sbiadita di una cena o nel rumore di fondo di un vecchio home video.
Paul Mescal, già sensazionale protagonista della serie Normal People, qui è altrettanto memorabile, capace di offrire al film la sua fisicità impacciata e il suo sguardo perennemente malinconico e pensoso, ma la vera rivelazione è la giovanissima Frankie Corio: è attraverso il suo sguardo che la Wells costruisce il film, con una sensibilità davvero rara.
La Wells è consapevole della natura ingannevole del cinema e delle immagini, sulla sua forza dissimulatoria, che finisce per scontrarsi con quella del ricordo e con l’evidenza della verità.
Le immagini riprese sono un inganno, ciascuno vi recita in fondo una parte. In quelle immagini ritrovate non c’è il vero Callum, quello che piange nudo e disperato, quello che fugge verso il mare in piena notte, quello in imbarazzo quando gli ospiti del villaggio – convinti da Sophie – gli cantano gli auguri per il suo trentunesimo compleanno.
E’ nel fuori campo assoluto della vita che la ragazza, ormai adulta, cerca una risposta a domande che rimangono inespresse, cerca di ricostruire la sua presenza probabilmente perduta.
In un film di infinita tenerezza, resta quell’ultima notte struggente, fatta di incontri mancati, di canzoni sbagliate, di balli un po’ ridicoli e di una partenza che suona come un addio. “Avrei voluto rimanere di più” dice Sophie a Collum, ma “non possiamo vivere in hotel per il resto della nostra vita”.
La verità non la conosceremo mai, la Wells non vuole sciogliere la complessità del suo film, suggerendoci un finale di comodo.
Imperdibile.
In Italia è distribuito sulla piattaforma MUBI dal 6 gennaio.