Anche Netflix vuole la sua Mission: Impossible, il suo Jason Bourne, insomma il suo franchise d’azione e spionaggio, ambientato ai quattro angoli del mondo, in mezzo a panorami esotici o al lusso decadente della vecchia Europa.
Ci ha già provato con 6 Underground e Tyler Rake.
Ora ci riprova affidando il compito ai quattro responsabili degli ultimi Avengers: gli sceneggiatori Christopher Markus e Stephen McFeely e i registi Anthony e Joe Russo.
Opzionati i diritti del romanzo di Mark Greaney, collaboratore di Tom Clancy, il primo di una lunga serie e scelto il sempre più muscoloso Ryan Gosling come protagonista – attorniato dall’incantevole Ana de Armas, che da No Time To Die se la cava magnificamente anche nel fare a botte, e da uno sciagurato e cartoonesco Chris Evans, nei panni del villain sociopatico – non restava che accumulare il necessario budget di 200 milioni per tentare l’alchimia.
Il risultato è questo insipido e destrorso The Grey Man, che approderà a cinema in sale selezionate per un paio di settimane, per poi arrivare nelle case degli abbonati da fine luglio.
Lo spazio d’elezione per un prodotto simile, di grande intrattenimento spettacolare, è certamente la sala cinematografica. Eppure se guardiamo le classifiche dei più visti di sempre sulla piattaforma di Hastings e Sarandos, i titoli che compaiono sono quasi solo blockbuster pieni di esplosioni e azione.
The Grey Man, come ha scritto Ehrlich su Indiewire, “incarna la propensione dello streamer a produrre film a budget elevato che sembrano deepfake dei classici successi da multiplex”.
Il cortocircuito sembra però essere esploso in questo primo semestre 2022 in cui gli abbonati calano per la prima volta e il modello Netflix sembra mostrare la corda.
The Grey Man stabilirà certamente nuovi record di ore viste, ma resta un prodotto del tutto incapace di dare un’identità ad una realtà che ormai riesce a produrre solo l’ennesima stagione di Stranger Things, per far parlare di sè.
Il film dei Russo si regge su una trama esilissima. L’ennesimo gruppo segretissimo di killer d’élite della CIA, creato da Donald Fitzroy, viene smantellato dal nuovo giovane capo arrivista, Denny Carmichael, che viene da Harvard, ma che ha imparato il gioco sporco molto in fretta.
Quando l’agente Sierra Six, questo il suo nome in codice, si avvede che la sua ultima missione prevede l’uccisione del collega Sierra Four comprende che qualcosa non quadra.
Four prima di morire gli consegna un ciondolo in cui è nascosta una memory stick con i segreti di Carmichael.
Six è così costretto alla fuga da Bankok. Carmichael mette sulle sue tracce un private contractor di nome Lloyd Hansen, uno psicopatico torturatore senza scruupoli, che rapisce la nipote di Donald Fitzroy, per costringere Six ad consegnarsi.
A dare una mano all’agente in fuga c’è la collega Dani Miranda, sua partner nella missione a Bankok, che ha capito il doppio gioco di Carmichael.
Il film procede spostandosi dalla Turchia a Berlino, da Praga al Castello di Chantilly, che non si capisce perchè viene localizzato in Croazia.
Il cambio di set viene quasi sempre introdotto da una panoramica impossibile via drone e l’azione corre sempre velocissima, quasi senza soste. Un solo flashback spiega il legame tra Six e la nipote malata di Donald Fitzroy e ci sono almeno un paio di numeri action notevoli, uno a bordo di un aereo in fiamme che viaggia sulla Cina, l’altra bordo di un tram, lanciato incredibilmente a velocità assassina per le strade di Praga. Senza dimenticare la prima scena ambientata a Capodanno, tra fuochi d’artificio e luci colorate.
Qui tuttavia i Russo non riescono quasi mai a controllare davvero i mezzi a disposizione, pasticciando un po’ con gli effetti speciali, per il desiderio di stupire ad ogni costo, anche superando la sospensione dell’incredulità.
Brian De Palma è ormai vicino al ritiro, i maestri hongkonghesi sono un ricordo passato, ma persino un Michael Bay sembra un gigante, al cospetto della bulimica e confusa accumulazione di inquadrature di The Grey Man.
Detto che l’intreccio è a dir poco elementare, privo di qualsiasi twist, che spiazzi le attese dello spettatore, i dialoghi di Markus e McFeely cercano di aggiungere sapidità, restando però stucchevoli come la salsa di soia. Gosling è piuttosto monocorde, nel ruolo della macchina di morte, teso esclusivamente alla propria sopravvivenza. Ana de Armas è del tutto sprecata, nonostante sia l’unica che sembra davvero credere a quello che fa.
Chiudiamo entrambi gli occhi invece di fronte a Chris Evans, che non riesce mai ad uscire dallo stereotipo omosessuale in cui il film lo incasella, senza apparente motivo, e che non è mai nè minaccioso nè ironico, ma solo costantemente ridicolo.
Quanto al miracolato Rege-Jean Page, direttore della CIA con sneakers e buco per l’orecchino al lobo, è davvero al di là del bene e del male.
L’unico personaggio fuori scala è il mercenario ex guerrigliero Tamil, interpretato dall’indiano Dhanush, che sembra mantenere una propria etica in mezzo al delirio di esplosioni e sadismo.
La storia è risaputa, i motivi restano confusi, così come le responsabilità. La geopolitica non è mai rimasta così sullo sfondo in un film di spie e l’adesione alla cultura delle armi d’assalto è francamente ributtante, in un Paese che quotidianamente lotta con le stragi di massa.
Il film è un ottimo spot per NRA e le sue campagne, fa un apologia reazionaria del killer mercenario, dipingendo il terzetto di ex studenti di Harvard come un gruppo di perfidi corrotti e risolvendo i conflitti in modo primitivo, a calci e pugni. A noi non resta che decidere se subire l’ennesima scarica di colpi o se respingere al mittente uno spettacolo così stolido e subdolo.
E intimamente trumpiano.