Hustle

Hustle **1/2

Dopo il pregevole esordio indie di Quando eravamo fratelli, presentato al Sundance 2018, Jeremiah Zagar dirige per Netflix questo dramma sportivo agrodolce, ambientato nel mondo della NBA, il basket professionistico americano.

Per Adam Sandler è una nuova incursione in territori lontani dai suoi exploit comici, come accaduto per Diamanti grezzi dei fratelli Safdie, anche quello in qualche modo correlato con lo sport professionistico e con le figure marginali che si muovono attorno ai campioni.

Qui Sandler è Stanley Sugerman, ex giocatore, ora scout dei Philadelphia 76ers: la sua vita scorre tra anonime stanze d’albergo e voli intercontinentali, in palestre male-illuminate e in campetti di strada.

A casa ha una moglie e una figlia che non vede mai.

Dopo aver visionato un giovane tedesco con qualche problema di etica del lavoro, che la franchigia decide di scegliere nonostante i suoi dubbi, l’anziano Rex Merrick proprietario della squadra, gli offre il posto di assistant coach, quello che Stanley desidera da tutta la vita, per abbandonare viaggi e valige e dedicarsi alla sua famiglia e a coltivare il talento dei suoi giocatori.

L’incarico dura poco, perchè Rex muore e il figlio Vick lo vuole di nuovo come scout, in giro per l’Europa.

Le cose cambiano quando Stanley scopre in un playground in periferia Bo Cruz, uno spagnolo che gioca per soldi con le Timberland alte. Lavora come operaio edile, da otto anni non ha una squadra vera, ma il suo talento sembra cristallino.

Contro l’avviso di Rex decide di portarlo negli Stati Uniti a confrontarsi con i maggiori giovani delle Università, per guadagnarsi un posto al draft di fine anno per giocare in NBA.

L’ambientazione nella città dell’amore fraterno richiama subito alla mente il più celebre dei film sportivi sulla seconda opportunità, ma è come se questa storia fosse narrata dal punto di vista di Mickey piuttosto che da quello di Rocky Balboa.

Evidenti anche i debiti con He Got Game di Spike Lee, che pure raccontava i condizionamenti e gli interessi attorno alle scelte dei giovani talenti.

In Hustle Sandler si ritaglia il ruolo del journeyman dal passato tumultuoso, che continua a ribollire sotto una coltre spessa di ordinarietà. Il suo Stanley è una sorta di Willy Loman sportivo, che intravvede improvvisamente l’occasione per cambiare tutto, ricominciare da capo, facendo davvero quello che ama.

Tuttavia non c’è tragedia per lui: la presa di coscienza della sua marginalità e sostituibilità nel mondo del basket professionistico, frequentato per 30 anni, viene risolta velocemente con un nuovo appello alle infinite possibilità che la vita ci regala.

Non poteva essere altrimenti, in un film prodotto dalla più grande star della lega, Lebron James, ed in cui compaiono una trentina di altri veri protagonisti, giocatori, allenatori, proprietari, commentatori.

Come sempre, in questi casi, l’afflato autocelebrativo spinge verso un happy ending consolatorio: la storia dell’underdog che si rivela un vincente l’abbiamo ascoltata davvero troppe volte.

Siamo lontanissimi dal capolavoro di Steve James, Hoop Dreams, che nel 1994 aveva raccontato l’illusione amarissima di chi si era cullato nel sogno dello sport professionistico, provenendo dai quartieri neri e poverissimi di Chicago, proprio mentre Michael Jordan trasformava quella città nella capitale del basket americano.

La distanza è significativa anche con il film di Spike Lee, che mostrava le forze in gioco, senza alcun giustificazionismo, chiudendosi su una promessa infranta.

Lo stesso Sandler, che trascina il film sulle sue spalle, quando la regia di Zagar non indugia pigramente sulle performance dei veri atleti coinvolti sul parquet, attraversa la storia senza mai un vero sussulto, senza mai una scheggia di follia, fedele ad un ruolo remissivo, trattenuto, quasi compresso.

Ad un certo punto l’amico manager gli ricorda che anche Ron Artest era una testa calda, manesco e attaccabrighe e ciononostante ha avuto una carriera formidabile nella lega. Quasi a sconfessare il nodo attorno a cui ruota il conflitto della sceneggiatura di Will Fetters e Taylor Materne, ovvero che il giovane Bo sia un poco di buono, incapace di resistere alle provocazioni e al trash talking. 

Insomma questo Hustle sembra essere la versione ripulita e corretta di un feel good movie sportivo, specialità tutta americana, che qui tuttavia si presenta col suo volto più ordinario e prevedibile.

Se fossimo davvero cattivi aggiungeremmo: in pieno stile Netflix.

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