Le otto montagne

Le otto montagne *1/2

Tratto dal romanzo di Paolo Cognetti e girato in italiano con un cast interamente tricolore dalla coppia di registi belgi Van Groeningen e Vandermersch, Le otto montagne è esattamente quello che non vorremmo mai vedere in concorso in una kermesse prestigiosa come il Festival di Cannes: un prodotto paratelevisivo, dall’impaginazione elementare, addomesticata, sorretto da una voce off malinconica, interpretato con dedizione, ma senza ispirazione, privo di qualsiasi elementare idea di cinema e di vita, che non sia ricatto sentimentale allo spettatore.

Dal regista di Alabama Monroe e Beautiful Boy, che questa volta firma la regia in coppia con la moglie attrice, potevamo aspettarcelo. Ma, come noi, anche i selezionatori del festival più importante del mondo.

Ad aggiungere onta all’impresa, il fatto che il polpettone si prolunghi per due ore e mezza, raccontandoci la storiella edificante di Pietro e Bruno, i due protagonisti che si incontrano per la prima volta dodicenni, tra le vette della Val d’Aosta, a Graines, una sorta di villaggio fantasma popolato da appena 14 anime nel 1984. Giovanni, il padre di Pietro, è un ingegnere che lavora a Torino, costretto a vivere tra fabbriche e ciminiere, ma appassionato di vette, ghiacciai ed escursioni: per evadere dalla solitudine alienante della città prende in affitto, in quel piccolo angolo di montagna, una casa per l’estate e ci porta moglie e figlio.

Qui Bruno è l’ultimo bambino del paese. Tra lui e Pietro nascerà un’amicizia breve ma intensa, poi il tempo li allontanerà tra rotture familiari, lavoro, crisi personali, silenzi.

Si ritroveranno solo vent’anni dopo, perché alla morte di Giovanni, Pietro scopre di aver ereditato un terreno con una vista magnifica sulla vallata e un rudere che Bruno, nel frattempo diventato muratore, come suo padre, ha promesso di trasformare in un piccolo rifugio per loro due.

Durante i quattro mesi di lavoro insieme, Pietro scopre un po’ alla volta che Bruno è stato per suo padre il figlio che lui non ha mai avuto il coraggio di essere e che è ormai parte della sua famiglia.

Una famiglia che lui invece ha abbandonato da molto tempo cercando se stesso, in opposizione ai desideri paterni.

Quando Pietro porta l’amica Lara al rifugio, tra lei e Bruno nasce una sintonia non solo sentimentale che li porterà a condividere il progetto un po’ folle di rimettere in piedi un vecchio alpeggio abbandonato, per produrre formaggio.

Mentre Pietro se ne va in Himalaya e in Nepal, senza mai trovare la sua dimensione, Bruno e Lara hanno una figlia, ma quando la loro piccola produzione di formaggio va in difficoltà economicamente, le cose precipitano anche sul piano personale.

Stretto in un 4/3 punitivo per la discreta fotografia di Ruben Impens che non lascia neppure ammirare la grandiosità del paesaggio alpino, Le otto montagne è un film fragilissimo, che mette in evidenza persino la mediocrità dell’intreccio originale di Cognetti, che nella dimensione autobiografica trovava almeno qualche motivo di interesse.

Nel film la passione per le vette si scontra con la dimensione tutta orizzontale e piatta del racconto in cui non succede praticamente nulla e le psicologie sono tagliate con l’accetta del montanaro, nonostante i due registi si prendano un tempo che pare infinito, ma senza spiegare nulla. I due protagonisti sembrano vivere per trent’anni in una bolla personalissima, in cui cambiamenti sociali, economici, politici, dei costumi sono del tutto indifferenti.

I due belgi restano sempre in superficie, incapaci di affondare realmente le mani nella complessità della vita, nel mistero della montagna, nella fatica fisica di chi ha imparato a lavorare con le proprie mani. Il loro rifugio è sempre uno psicologismo pernicioso, lacrimevole, tutto ripiegato nel privato. Anche le scelte estetiche del film riflettono quelle narrative, parimenti anestetizzate.

Per mostrare l’alienazione di Giovanni i registi lo inquadrano a fumare fuori da una porta di sicurezza di una ciminiera, poi lo fanno uscire di scena senza troppe cerimonie. Marginalissima anche la madre, interpretata con la solita impalpabile presenza da Elena Lietti, che è poco più che una figurante, così come Lara, la donna brevemente contesa tra i due amici.

Restano Borghi e Marinelli che fanno il possibile, con quel poco che hanno a disposizione. Meglio Borghi, che si cimenta, per una volta, in un dialetto lontanissimo dal suo  e a cui il film regala soprattutto silenzi e fisicità.

Marinelli ha invece un personaggio così sconclusionato e velleitario, costruito interamente sui cliché dello spleen ribelle, che fa tenerezza. Peraltro la voce off lo rende subito insopportabile.

Non lo consiglieremmo neppure a coloro che hanno amato il libro di Cognetti.

Come ha scritto Richard Brody sul New Yorker, con una punta di perfidia: “Ci sono abbastanza informazioni nei centoquarantasette minuti di Le otto montagne per riempire un cortometraggio, abbastanza varietà audiovisiva per confezionare un opuscolo di cartoline illustrate e abbastanza portata emotiva per adattarsi a un trailer. La mia definizione di film lento non è che sia lento nell’azione ma lento nel pensiero; alcuni film con drammaturgia minima e riprese lunghe e statiche offrono un rinvigorente slancio di idee, mentre Le otto montagne non è solo lento nell’azione e nella successione delle immagini, ma anche quasi privo di idee o, almeno, della loro espressione. D’altro canto, il suo stile e il suo senso drammatico riflettono davvero un’idea del cinema, del mondo e della loro connessione che è scoraggiante quanto l’estetica stessa”.

Inutile perdere tutti – voi che leggete, io che scrivo – altro tempo.

Disastroso.

Vincitore di 4 David di Donatello, tra cui quello di miglior film dell’anno.

 

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