“Un uomo non va in cerca di comando. Viene chiamato e risponde di sì”
Il nuovo adattamento cinematografico del romanzo di Frank Herbert, scritto a metà degli anni ’60, arriva alla Mostra di Venezia con tutto il carico dell’ambizione smisurata del suo autore, il canadese Denis Villeneuve, che dopo i successi di Prisoners e Sicario, i premi di Arrival e il confronto con il mito di Blade Runner, decide di affrontare l’impresa, che appassionò Jodorowsky e Lynch già mezzo secolo fa.
Scrivendo con Eric Roth e Jon Spahits il copione di questo primo capitolo di una storia pensata per avere almeno due episodi cinematografici e un appendice seriale, Villeneuve ha amplificato i toni messianici del libro e l’ambizione omerica del viaggio del protagonista, il giovane erede Paul Atreides, perduto nel deserto di Arrakis e dentro se stesso, alla ricerca della conoscenza e della forza, che il destino sembra avergli regalato.
Il film si concentra sulla prima metà del romanzo, quella che racconta la caduta del Duca Leto della casata degli Atreides, una delle famiglie più potenti del Landstraad, tradito da una congiura, che l’Imperatore ha ordito ai suoi danni, con il favore del crudele Barone Harkonnen.
Siamo nel 10191 e il bene più prezioso dell’Impero è il melange, la spezia, una sostanza che consente di prevedere il futuro, allungare la vita e schiudere le potenzialità della mente, ma anche più prosaicamente il carburante che consente di viaggiare nello spazio. Viene estratta dal pianeta di Arrakis. Per 80 anni sono stati gli Harkonnen a gestire l’estrazione, arricchendosi in modo smisurato e schiacciando la popolazione locale, i Fremen.
L’imperatore, temendo l’ascesa del Duca Leto, decide di tendergli una trappola, sfruttando la faida con gli Harkonnen e muovendosi nell’ombra. Revoca la concessione per l’estrazione della spezia e l’affida agli Atreides. Quando il Duca Leto, il figlio Paul e la sua corte raggiungono Arrakis, uno dei consiglieri lo tradisce e l’attacco degli Harkonnen e della guardia imperiale dei Sardaukar non incontra difese.
Paul e la madre Jessica, concubina del Duca Leto, riescono a fuggire nel deserto di Arrakis, popolato da temibili enormi vermi.
Lady Jessica appartiene alla sorellanza delle Bene Gesserit, un ordine millenario composto da sole donne, guidato dalla Reverenda Madre, che siede a corte accanto all’Imperatore, dedito allo sviluppo del pieno potenziale della mente umana attraverso un rigido addestramento, che conferisce alle sue adepte straordinarie capacità di osservazione, ragionamento, memoria e manipolazione della mente.
A loro spetta anche una sorta di selezione eugenetica degli eredi, che ha l’obiettivo di identificare il “Kwisatz Haderach”, l’uomo del destino, che avrà più potere di una Reverenda Madre e avrà accesso a tutte le memorie dei suoi antenati.
Nel deserto, Paul e Lady Jessica si imbattono nei Fremen, la popolazione indigena di Arrakis.
Tra di loro Paul riconosce Chani, una ragazza che più volte gli era apparsa in sogno.
Ma “i sogni sono messaggi dal profondo“, come ci ricorda la frase che Villeneuve pone in apertura del suo film e i Fremen attendono l’avverarsi di un’antica profezia di liberazione, che Paul sembra incarnare pienamente fin dal primo incontro.
Il film di Villeneuve è un monolite dalle dimensioni smisurate, immerso nella musica come al solito tambureggiante e senza sfumature di Hans Zimmer. Fedele al romanzo originale, ma anche intenzionato a illuminarne passaggi e oscurità, Dune sembra bruciare velocemente le sue due ore e mezza, ricostruendo nelle scenografie minimali e brutaliste di Patrice Vermette, illuminate con toni freddi da Greig Fraser, un universo di tradimenti, vendette e duelli, popoli oppressi e saccheggiatori ostili, che lascia troppo spesso la dimensione politica in secondo piano, per inseguire il tormento del conflitto personale.
Villeneuve e i suoi sceneggiatori preferiscono tenere sullo sfondo le questioni politiche e le trame di potere, per focalizzarsi sul processo che porta il giovane Paul a prendere coscienza di sè e della propria unicità.
Se Herbert voleva raccontare in filigrana la disumanità colonialista del capitalismo occidentale impegnato a sfruttare senza limiti le risorse del pianeta, Villeneuve accantona metafore e allegorie, restando ancorato alla storia degli Atreides.
Ancor più che nell’adattamento del 1984, questo Dune è il film di Paul, l’uomo della provvidenza, che le visioni spingono verso un destino segnato, che non pare riuscire davvero a governare ed a cui non sembra potersi opporre.
Paradossalmente, Villeneuve spezzando il romanzo in due film, decide di concentrarsi solo su alcuni personaggi e in particolare sul protagonista, lasciando agli altri una funzione significativamente marginale.
Chi ricorda il film di David Lynch, sentirà forse la mancanza dell’Imperatore e della figlia Irulan, che interpretava il ruolo della narratrice – qui affidato brevemente all’inizio a Chani – ma anche di Feyd-Rautha, il nipote folle del Barone Harkonnen, una sorta di doppio speculare di Paul, viziato dagli agi del potere assoluto. Anche il ruolo di Rabban è piuttosto insignificante e persino la Reverenda Madre ha una sola scena, quella celeberrima della scatola della paura.
Nonostante il cast infinito, in realtà non si tratta di un film corale, quanto piuttosto del più classico dei viaggi dell’eroe.
Non perchè Villeneuve abbia rinunciato alla complessità del testo originale, quanto piuttosto perchè ha deciso legittimamente di privilegiare alcuni elementi rispetto ad altri, sfidando una costruzione manichea e puntando l’obiettivo sul suo protagonista, impegnato a fare i conti con se stesso e le sue visioni.
Non è un caso allora che nella definizione dei villain il film sia reticente: il Barone Harkonnen e l’Imperatore si muovono quasi sempre nell’oscurità e i Fremen sono ancora un popolo misterioso, che Paul comincerà a capire solo dopo l’incontro finale con Chani.
Dal punto di vista stilistico e tematico, ritornano le grandi panoramiche aeree che sono il preludio all’introduzione dei diversi pianeti e all’ingresso dei personaggi, così come rimane importante la dimensione linguistica: chi conosce idiomi diversi riesce a comunicare senza essere scoperto.
Tuttavia in questo Dune il conflitto culturale si muove su coordinate che restano appena accennate e che troveranno spazio maggiore nella seconda parte, in cui Paul si immergerà nei segreti del deserto di Arrakis.
Villeneuve sceglie una messa in scena spettacolare, che riempie occhi ed orecchie, ma che forse non trova sempre la meraviglia e l’immaginazione, proprio perchè i riferimenti estetici sono spesso minimalistici e le forme e i costumi sono essenziali nella loro modernità.
Nell’introdurre il gigantesco Barone Harkonnen, il regista sembra citare il Kurtz di Marlon Brando, le astronavi che atterrano nella notte richiamano la forma tonda e le luci di Incontri ravvicinati, mentre la fortezza di Arrakis nella ripresa aerea iniziale sembra la babelica Tyrell Corp. di Blade Runner.
Se da un lato l’impianto iconografico del film riprende così il tema della grande archivio di frammenti e immagini da cui la fantascienza può attingere senza sosta, per ricostruire la realtà attraverso uno sguardo capace di imporvi una nuova una cosmogonia – come già accadeva in Blade Runner 2049 – dall’altro i segni che ritroviamo in Dune sembrano solo piccole note a piè pagina, in un lavoro che non volendo plagiare postmodernamente il cinema altrui, ambisce a costruire un immaginario cinematografico proprio, senza debiti col passato.
A questo obiettivo la fotografia di Fraser contribuisce in modo determinante e controintuitivo, raffreddando i gialli del deserto e privilegiando interni cupi e scene girate con luce naturale e minima, di notte o appena prima dell’alba.
Se il referente visivo primario del film di Lynch era l’acqua, in questa nuova trasposizione sembra invece essere la sabbia del deserto, che impregna la terra su cui si muovo i personaggi, l’aria che respirano, l’orizzonte che hanno di fronte.
Dune sembra così un film tetragono, senza ironie nè apparenti fragilità, in cui la dimensione eroica dei personaggi è un portato del destino più che della volontà e in cui i motivi e i mandanti restano nell’ombra, lasciando in primo piano solo il protagonista, la sua famiglia e i suoi incubi.
Villeneuve non sembra trovare davvero la chiave interpretativa giusta per aggiornare le ansie di Herbert, forse anche perchè, scegliendo di adattare solo una parte del romanzo, la scoperta di Arrakis e dei suoi tesori rimane una promessa da avverare nel prossimo capitolo.
Le ultime parole del film, pronunciate da Chani sono proprio: “questo è solo l’inizio“.
Ce lo auguriamo.