Un rumore sordo, come di un tonfo, con un’eco metallica.
E’ quello che risveglia nella notte Jessica, una botanica, specializzata in orchidee, che vive a Medellin ma si è spostata a Bogota per venire a trovare la sorella, ricoverata all’ospedale universitario.
Quel rumore, che un misterioso tecnico del suono è riuscito a ricostruire in consolle, non la fa dormire: neppure una visita surreale da un dottore locale riesce a placarla.
Nel frattempo in università conosce un’archeologa, che sta lavorando ad uno scavo in cui sono stati trovati reperti di 6000 anni prima.
In uno stato catatonico e febbrile, indotto dall’insonnia, Jessica si aggira per Bogota, si perde e perde le coordinate del suo quotidiano, fino a quando incontra un pescatore, Hernan, alle pendici delle montagne del Pijao.
E’ l’uomo a farle capire che il rumore che sente viene da un tempo diverso.
Il nuovo lavoro di Apichatpong, a distanza di sei anni dall’epocale Cemetery of Splendour, è il suo primo lavoro girato fuori dalla Thailandia, in inglese e spagnolo, con un cast internazionale dominato da una onnipresente Tilda Swinton.
Chi conosce il cinema di Apichatpong, sa che la presenza attoriale è solo lo strumento di un cinema sensoriale, estemporaneo, che dialoga tanto con il paesaggio esteriore che con la coscienza interiore, in una maniera unica e in cui l’elemento sovrannaturale è una presenza altrettanto centrale
Il regista thailandese è uno dei grandi creatori di immagini di questo secolo, uno dei talenti più puri del cinema internazionale, capace di spingere i suoi film in quello stato magico che sta tra il sonno e la veglia, in cui tutto può accadere e in cui le connessioni sono solo emotive, liberate da ogni logica di racconto.
Anche questa volta il tentativo è di raccontare il peso del passato attraverso una materializzazione sonora e non visiva della memoria: è una scelta originale, spiazzante, assolutamente indovinata.
Non diremo nulla sul finale, ma la scoperta dell’origine di quel suono angoscioso, che sconvolge la vita di Jessica, arriva alla fine di una delle sequenze più potenti ed evocative del suo cinema.
Ed è anche l’unica volta che la Swinton viene inquadrata da un piano ravvicinato, abbandonando i campi medi e lunghi, di tutto il film.
Fedele al suo cinema fatto di piani fissi, di inquadrature che si prolungano oltre ogni convenzione, capaci far entrare dentro la storia elementi e presenze del passato, Memoria sembra tuttavia il meno riuscito dei suoi lavori.
In un festival di promesse mancate, anche Apichatpong resta un passo indietro a se stesso.