Undine – Un amore per sempre ***1/2
Nel percorso tra mito e storia, che caratterizza il cinema di Christian Petzold, forse il più lucido e importante regista tedesco del nuovo secolo, Undine, con la sua dimensione fiabesca, con la sua drammaturgia essenziale, può essere quasi scambiato per un film minore.
Sarebbe un errore imperdonabile, perchè Undine è proprio uno dei suoi esiti più felici, un melò assoluto, lontano da ogni realismo, e al contempo un nuovo saggio sulla fine della storia, sul ciclo infinito del cambiamento, inquadrato nella sua dimensione urbanistica, architettonica.
Il mito delle Ondine – creature fatate, prive d’anima, che vivono nei fiumi e nelle acque, sirene che ammaliano e attirano gli uomini, per guadagnarsi l’accesso al Paradiso – è il filo rosso su cui è costruito il film di Petzold.
La sua Undine lavora come storico al Märkisches Museum di Berlino, dove il Dipartimento per lo sviluppo urbano della città tedesca ha installato un enorme plastico del cuore storico della città e una serie di vedute, modellini, ricostruzioni, che testimoniano l’impetuoso sviluppo urbanistico, dall’Ottocento ad oggi, di una città distrutta dalla guerra, per quasi trent’anni divisa in due, poi riunificata.
Le viene assegnato il compito di presentare ad un gruppo di studiosi la storia dell’imminente ricostruzione dell’Humbolt Forum, forse il simbolo più evidente della rinascita e delle sue contraddizioni, perchè sorge esattamente nello spazio dove, in età gugliemina, c’era lo Stadtschloss, il castello cittadino, che il regime della DDR aveva simbolicamente lasciato vuoto, dopo la sua distruzione: “Al centro di Berlino sorge un museo costruito nel XXI secolo con le fattezze di un palazzo reale del XVIII. L’inganno sta nell’ipotesi che non faccia nessuna differenza. Significa sostenere che il progresso sia impossibile”.
Ma nella vita di Undine non c’è solo il suo lavoro. E’ appena stata lasciata da Johannes, proprio nel caffè di fronte al museo, in una pausa tra una presentazione e l’altra: “se lo fai davvero, sai che dovrò ucciderti” risponde all’amante, sconcertato, ma poi, per puro caso, si imbatte letteralmente in Christoph, un palombaro, che aveva assistito alla sua lezione.
Abbandonata e quindi privata della sua anima, Undine ne trova una nuova, grazie alla fatalità di un incontro, che tuttavia la rende umana, fragile, vulnerabile alle onde dei sentimenti.
Così come avviene nel corpo vivo della città, anche nella vita di Undine, vuoti e assenze, vengono colmati da nuove costruzioni emotive. Le storie d’amore assomigliano spesso alle nostre realtà urbane, in cui corpi, memoria, sentimenti, sono come sedimentate, a creare fondamenta su cui poggiare nuovi edifici.
La tenerezza dell’incontro si alimenta di un disastroso incidente con un acquario e della passione comune, per le profondità di un fiume, dove Christoph lavora alla sistemazione di una turbina.
Petzold lavora con i suoi sensazionali interpreti, Paula Beer e Franz Rogowski, gli stessi del suo ultimo Transit – La donna dello scrittore, alla costruzione di un melodramma, che asciuga ogni eccesso, mantenendo tuttavia una struttura malinconicamente fatale, in cui la dimensione mitica e visionaria si stratifica e arricchisce la linearità narrativa di un film su due amanti, che finiscono sempre per mancarsi.
Nel suo film gli eventi si richiamano tra di loro, simbolicamente, con un senso premonitore, che spinge i suoi personaggi verso il loro destino.
Già ne Il segreto del suo volto, la fenice diventava metafora di un paese costretto a ricominciare da capo, a cambiare letteralmente volto, dopo il disastro della guerra, e anche questavolta il lavoro di Petzold cerca la grande Storia, dietro un semplice racconto d’amore e nelle pieghe di un’antica leggenda popolare.
Il film è travolgente, sotterraneo, lavora su livelli diversi e fa appello a sensibilità, che non temono la forza impetuosa della tragedia e del mito.
Undine rifiuta ogni realismo banalizzante, cercando nell’immaginazione e nel sogno la sua dimensione più vera e rinnovando, con la forza del cinema, la sua dimensione ancestrale.
Imperdibile.
P.S. SdC aveva già pubblicato una prima recensione di Undine, al momento della sua anteprima dal Festival di Berlino a febbraio. La recensione di Sara Paqu Bresciani è disponibile qui.