C’era una volta un barista innamorato della notte e c’era una volta suo fratello gemello. Due facce da schiaffi. C’era una volta una brava regista che aspirava a realizzare film erotici non banali. C’erano motel squallidi, bettole dove si esercitava la prostituzione e saune per soli gay. C’erano sexy shop e peep show, ma ormai c’era anche il VHS, l’amatoriale fai-da-te a portata di mano. E c’era l’AIDS, l’epidemia che la politica fingeva di non vedere. E poi la cocaina, tantissima. C’erano gli italo-americani mangiaspaghetti. I Gambino… I Pipilo… La mafia! E c’erano gli yuppies sguaiati, devoti al dio della finanza, prototipi dell’America che verrà. C’erano i grandi speculatori immobiliari spalleggiati da poliziotti compiacenti. Anche l’arte, però, c’era. Keith Haring, Jean Michel Basquiat, il graffitismo, il teatro sperimentale, le produzioni indipendenti. E la nuova ondata musicale: il rap, la new wave. La legge della strada era un vangelo urbano facilmente comprensibile. Si moriva, si sparava, si spariva.
C’era una volta tutto questo e altro ancora, negli anni Ottanta a New York City, una metropoli poggiata su un piedistallo di fascinosa decadenza.
La season 3 è ambientata nel 1985. Poi, il brusco salto temporale, un’appendice di rara intensità drammatica. The Deuce si chiude infatti con un epilogo di portata epica. Vince Martino, ormai anziano, si incammina lungo la scintillante e anonima Times Square del 2019. Lo sfarzo esteriore nasconde rovine interiori. NYC, tirata a lucido dal lifting finanziario, ha perso l’anima. I grattacieli sormontati da megaschermi potrebbero essere quelli di una megalopoli cinese appena sorta dal nulla, oppure di Singapore o di Kuala Lumpur.
Chi sarebbe in grado di riconoscere la differenza? La cosmopolis ha vinto e agli sconfitti non è concesso nemmeno l’onore delle armi. È un finale straziante. Vince incrocia a uno a uno gli spettri di quarant’anni prima, le guardie e i ladri, i papponi e le puttane, l’infinita, brulicante, umanità che popolava i vicoli e i bar della Deuce, luoghi triturati dalle accelerazioni della smart city ipertecnologica. La “rigenerazione” urbanistica promossa dall’amministrazione Koch ufficialmente in nome della sicurezza e del decoro, nel volgere di un decennio ha spazzato via la sporca innocenza dei ruggenti Seventies. Rudolph Giuliani, Sindaco-Sceriffo, ha fatto il resto. Ed eccoci qui.
Le mutazioni antropologiche della Grande Mela ultimamente seducono gli sceneggiatori, basti citare Pose (rimandiamo i lettori alle nostre recensioni della prima e seconda stagione), altra serie di primissima grandezza da noi elogiata. The Deuce narra la metamorfosi umana con una saggia dose di spietatezza. La vecchia NYC, avvolta dalle nebbie del mito, appartiene all’archeologia culturale. La spensierata, disperante, smaniosa vitalità del dopoguerra, culminata nella tensione creativa degli anni Settanta e Ottanta, è svanita. Soffermiamoci, ancora per un attimo, sul finale. Vince, a spasso in un tempo sospeso, incontra suo fratello Frankie, e poi Lori, Candy, Paul, Rudy, ma non Abby. La ragazza di buona famiglia che, ventenne, abbandonò gli studi per piazzarsi dietro il bancone dell’Hi-Hat è l’unica, a quanto pare, che ha saputo trovare la via della salvezza e può legittimamente restare in superficie, attaccata al suo mobile phone mentre parla di affari. Quando vediamo Vince scendere nella subway, abbracciato a Frankie, ci viene un dubbio: che sia anche lui uno spettro? Due città inconciliabili scorrono su binari paralleli, come le due città presupposte da Agostino.
La terza e ultima stagione di The Deuce è densa di storie, al plurale, quanto le precedenti (qui, la nostra recensione della season two). David Simon e George Pelecanos, non ci stancheremo mai di dirlo, riversano nelle loro creazioni un piacere per l’indagine sociale che ha pochi eguali nella serialità televisiva. Difficile immaginare una fusione meglio riuscita tra intrattenimento e verità, tra fantasia e “scienza”.
Certo, per amare The Deuce bisogna essere disposti a seguire programmaticamente gli sviluppi delle molte (sotto)trame, che a tratti si intersecano e a tratti fuggono via lungo direttrici proprie. Difficile, in ogni caso, smarrirsi: lo script accompagna lo spettatore nel dedalo di incastri perfettamente oliati. Gustare i singoli dettagli del grande affresco è impegnativo e insieme appagante. L’antispettacolarità delle serie firmate da Simon&Pelecanos è proverbiale. La premiata coppia di autori predilige tempi di cottura a fuoco lento. La rarefazione dei colpi di scena rende gli snodi tragici ancor più memorabili.
La pornografia, nelle mani degli autori del seminale The Wire, diventa quindi mezzo e strumento per esplorare mondi, vite, relazioni e situazioni. Benchè NYC rimanga il fulcro geografico delle vicende, in questa terza stagione il racconto abbraccia gli spazi dell’altra America, la West Coast dai colori artificiali e abbacinanti. A Los Angeles fiorisce l’industria a luci rosse e le case di produzione si specializzano in nuovi filoni, più aggressivi, più torbidi, più estremi. L’evoluzione tecnologica abbatte vetusti steccati, la dinamica del desiderio si conforma agli standard prescritti dalle mode. Se tutti possono filmarsi autonomamente con una videocamera, a quali stimoli si dovrà ricorrere per smuovere lo spettatore/consumatore? Eccitazione chiama abiezione. Chi vorrà ancora sborsare dollari per andare al cinema? Per massimizzare i profitti sarà necessario puntare solo sulla distribuzione di videocassette? Costretti dalle leggi dell’economia a ripensare i confini dell’osceno, i produttori di film hard decidono di meccanizzare l’atto sessuale e, come corollario, incoraggiano la proliferazione di varianti “performative”, comprimendo progressivamente l’elemento-trama. Si può forse arrossire e sorridere, maliziosi, davanti a questa dialettica tra cangianti categorie dell’erotismo e sempiterno desiderio umano, eppure un esame disincantato rivela che, nell’evoluzione della pornografia, è possibile ravvisare direzione e destino del capitalismo stesso.
Candy alias Eileen Merrell se ne accorge presto. Indipendente e ostinata, stagione dopo stagione abbiamo ammirato la sua determinazione e ci ha incuriosito il suo modo originale e anticonformista di declinare il concetto di emancipazione. Riuscirà Candy/Eileen, affascinata da Godard, Chabrol e Kurosawa, ad affermare il suo erotismo girato secondo un punto di vista femminile? In The Deuce 3 ritorna e si fa pressante la questione della (falsa) neutralità dello sguardo, un tema che ricorre in molti saggi del compianto critico John Berger. La regista Candy chiede al suo mentore e produttore, l’intelligente ebreo newyorchese Harvey, che cosa abbiano in mente gli uomini quando guardano un film hard. Il porno nasce da loro ed è per loro. Nella rappresentazione di persone che non fanno l’amore bensì simulano grottescamente pose, modi, figure ed esito del rapporto sessuale, il genere si connota per la sua resa innaturale. Siamo nel cuore di un ragionamento filosofico.
Il buon Harvey fa i conti con il borsellino e si rende conto che le aspirazioni di Candy non possono trovare spazio in un mondo dominato dal profitto. Questo è un punto dirimente, la pietra filosofale per capire senso e struttura della produzione artistica a partire dagli anni Ottanta, una divaricazione di percorsi che possiamo riscontrare, senza eccessivi sforzi, in tutti i settori creativi. Quantità contro qualità, abbassamento di standard estetici contro raffinatezza stilistica indirizzata ad una ristretta nicchia di palati fini. La sensualità, materia delicata e ineffabile, è brutalizzata dalla tirannia idiota del godimento immediato. Erotismo e “autorialità” non possono marciare insieme. Sfinimento e sovrastimolazione, due condizioni che il tardocapitalismo impone alla sterminata platea del ceto medio impoverito, si riflettono nella distorsione della sessualità, una sfera delle relazioni umane de-erotizzata e ridotta alla “variazione minima di una soddisfazione già familiare” (Cfr. Mark Fisher, La lenta cancellazione del futuro in Spettri della mia vita, Minimum Fax, 2019).
Nella terza stagione di The Deuce irrompe l’AIDS. I tempi del libertinismo ingenuo sono finiti. Si concretizza una strana alleanza tra i moralisti conservatori dell’era Reagan e il femminismo, che attacca la pornografia in quanto pratica umiliante per le donne. Candy, contestata, non sa cosa ribattere a chi le ricorda che, per una donna affermata, moltissime altre soffrono in silenzio sul set, mortificate, oltraggiate, torturate nella dignità. Che fine fanno le attrici dei film porno, una volta conclusa la loro carriera? The Deuce non è una serie manichea, al contrario predilige i chiaroscuri. Candy, l’autrice-imprenditrice che rinuncia alle sovvenzioni del suo compagno Hank per lavorare in piena autonomia finanziaria, nel rapporto con Lori dimostra come l’integrità morale possa trovare sponda nel cinismo opportunistico.
Lori è forse il personaggio simbolo di The Deuce 3, colei che incarna lo spirito circolare della tragedia. Se Candy è anche Eileen, figlia ostracizzata, madre sfortunata, amante complicata, Lori è esclusivamente Lori, donna a una sola dimensione, la giovanissima ragazza approdata nella Grande Mela in cerca di fortuna e sprofondata, suo malgrado, nelle sabbie mobili della prostituzione. Lori ha dovuto lottare per strapparsi alla schiavitù della strada. Puttana e poi diva dei film a luci rosse, Lori non ha alternative. Il suo corpo è fonte unica di reddito, la boa che la tiene a galla e la gabbia che la soffoca. Il suo è un pellegrinaggio a ritroso, dai set circonfusi da un’ambigua aura di gloria alla NYC dove i palazzi crollano per fare spazio ai condomini di lusso. L’America on the road di Lori è fatta di tappe dolorose. Qualcuno la insegue. È uno stalker reale o sono i suoi incubi venuti a galla? Lori non ha nessuno e nella sua alienazione leggiamo l’essenza del loser. Lori chiede al tassista di passare davanti alla sua vecchia casa. La vede sbarrata, corrosa dalle intemperie, desolatamente vuota, una cruda rivelazione che ricorda la scena conclusiva di The Swimmer, racconto di John Cheever e poi splendido film di John Berry. Ultima fermata, una squallida camera d’albergo. The show must go on. Intuizione geniale e raggelante: nell’episodio successivo nessuno accenna alla sua fine. Lori, spettro tra gli spettri, evapora nel nulla.
In The Deuce 3 personaggi apparentemente secondari risultano funzionali al discorso armonico d’insieme. La ex prostituta Melissa ritrovata dal padre dopo anni di gelido distacco, il barista e imprenditore Paul Hendrickson compagno di un attore emergente malato terminale di AIDS, il funzionario pubblico Gene Goldman in bilico tra vizi privati e pubbliche virtù, il boss mafioso Rudy Pipilo romanticamente nemico della droga… Sarà forse ridondante, considerata la notorietà della serie, ricordare il cast, ma non possiamo esimerci dal citare i fantastici attori di questa terza stagione: James Franco, Maggie Gyllenhaal, Emily Meade, Margarita Levieva, Lawrence Gilliard Jr, David Krumholtz, Chris Coy, Chris Bauer, Olivia Luccardi, Luke Kirby, Michael Rispoli. La colonna sonora è meravigliosa: Blondie, Talking Heads, Roxy Music, Chaka Khan, Billy Joel… C’era una volta a New York City e ora non c’è più.
Titolo originale: The Deuce 3
Numero degli episodi: 8
Durata media ad episodio: da 56 a 71 minuti l’uno
Distribuzione originale: HBO
Distribuzione in Italia: Sky Atlantic dall’8 al 29 ottobre 2019
Genere: Drama
Consigliato a chi: crede all’equazione ‘film cult’ uguale ‘film che non guarda nessuno’
Sconsigliato a chi: riutilizzava i nastri “scomodi” per registrarci sopra video di famiglia
Ascolti, visioni e letture parallele:
-
Il disco postumo di Prince, Piano and a Microphone 1983 (2018);
-
Il film d’esordio di Jim Jarmusch, Permanent Vacation (1981);
-
Un libro caustico e surreale, dove il protagonista è un cultore della “pornografia d’arte”: Luciano Funetta, Dalle rovine, Tunuè editore (2015).
Una scena: Nel sesto episodio Candy, per spiegare ai suoi attori un po’ timidi come entrare nella parte, fa leva sui traumi della sua adolescenza. La vita è finzione, la finzione è vita.