Boris and Zhenya are going through a divorce. Arguing constantly, and in the process of selling their apartment, they are already preparing for their new lives: Boris with his younger, pregnant girlfriend and Zhenya with the wealthy lover who is keen to get married. Neither seems interested in their 12-year-old son Alyosha. Until he disappears.
Primo film del concorso ufficiale di Cannes 70, Loveless è solo il quinto del russo Andrey Zvyagintsev, Leone D’Oro al debutto con Il ritorno nel 2004 e poi quattro volte sulla Croisette.
Il suo è cinema morale, rigoroso, che non concede molto al suo pubblico. Il mondo in cui si muovono i suoi personaggi è quello confuso e fragile della contemporaneità. La Russia che entra nelle sue inquadrature è sempre misteriosa e crudele: la natura avvolge i protagonisti osservandone impassibile le miserie e i dolori.
Anche in Loveless, come in altri suoi film, tutto comincia con un bambino, il dodicenne Aliosha, che torna da scuola attraversando un paesaggio incontaminato, apparentemente lontano dalla frenesia di una capitale: rami spezzati, un grande albero, il fiume, un pallido sole.
Aliosha sembra un ragazzino solitario. Ma i suoi problemi cominciano a casa: i genitori stanno divorziando, il loro appartamento è in vendita e nessuno dei due vuole prendersi cura di lui, destinato forse ad un collegio e poi alla scuola militare.
Boris e Zhenya, i genitori, non smettono mai di litigare, ma hanno ormai altri compagni e un’altra vita che li aspetta. Lei con un uomo più maturo, lui con una giovane donna in attesa. La loro è una famiglia borghese: lui lavora – quando non passa il tempo giocando a solitario sul computer – per una grande azienda, ancorata a rigidi valori familiari e religiosi. Lei gestisce un salone di bellezza.
L’unica preoccupazione di Boris è quella che il divorzio possa ostacolare la sua carriera, visto che nessuno tra gli altri dipendenti, sembra avere una famiglia meno che perfetta, magari solo di facciata.
Zvyagintsev si sofferma a lungo sulle nuove relazioni di Boris e Zhenya, ne osserva l’intimità ritrovata, li mostra distanti, lontanissimi. Entrambi ignari e indifferenti del dolore di Aliosha, chiusi in un egoismo assoluto, profondamente immaturi, persino di fronte ai sentimenti, persino di fronte al loro ruolo di padre e di madre.
Nel frattempo Aliosha è sparito: da due giorni manca da scuola e a casa non è tornato.
La polizia è del tutto inutile, ma un gruppo di volontari organizzati si mette sulle tracce – in verità assai lievi – dello scomparso. Le ricerche procedono metodicamente, nel vicinato, dalla nonna che vive in una dacia fuori Mosca, interrogando i compagni di scuola. Ma neppure questo riesce a smuovere Boris e Zhenya, che vivono ormai su pianeti completamente distanti.
In auto, costretti ad una vicinanza ineludibile, ogni pretesto è buono per litigare, la musica o il fumo di una sigaretta, il freddo che entra dai finestrini.
Il film racconta con toni bergmaniani e con l’esattezza del piano sequenza, il loro distacco, poi quando Alisha scompare, il montaggio si fa più brusco, frenetico, quasi da thriller, con campi e controcampi che rompono l’illusione dell’idillio costruito altrove dai due genitori.
Zvyagintsev ambienta il film nel 2012, al tempo della campagna tra Obama e Romney e della guerra in Ucraina: echi di fine del mondo accompagnano le ricerche, dagli schermi della tv e dagli altoparlanti delle autoradio.
Forse si perdono i riferimenti più politici, ma resta lo sguardo di un umanista che ha smesso di credere all’umanità dei suoi personaggi e si sofferma quindi sui boschi deserti, su un gruppo di anatroccoli che nuota nel fiume, sulle rovine degli edifici del regime sovietico, sugli anonimi interni di condomini senza più identità.
Così come nel glaciale Elena, il film che più si avvicina a Loveless per ambientazione e temi, anche questa volta siamo di fronte ad una tragedia solo apparentemente familiare: è vero al centro ci sono uomini e donne che hanno perso il senso del loro stare al mondo e che non esitano a rilanciarsi stupidamente un rancore puerile, superficiale. Ma sono solo un simulacro della Russia intera, un paese decadente, il cui passato è andato in pezzi ed il futuro è letteralmente sparito.
Basterebbe la scena notturna a casa della anziana madre, arroccata in una vecchia casa, circondata da un cancello diroccato, a raccontare metaforicamente tutto il senso di una storia perduta.
Non c’è amore nel film di Zyagintsev, nè tantomeno grazia. Quello che rimane forse è solo il sesso, nella sua urgenza comunicativa più animalesca e primitiva. Ma quando l’ardore finisce, i corpi si allontanano, smettono di parlarsi e non si può che rifugiarsi su un tapis rulant, posto letteralmente fuori di casa.
Nell’aridità dei suoi personaggi, il regista russo ritorna sul senso profondo del suo cinema. Un cinema che continua ad interrogarci e a chiamarci in causa. In fondo, quelli perennemente col cellulare in mano, curvi sugli schermi e intenti a fare foto alle cose che mangiamo, siamo proprio noi.
Quei padri anaffettivi, quelle madri mostruose sono intorno a noi.
Nel frattempo dentro e fuori la camera di Aliosha, la vita continua. Il tempo passa implacabile e tutto sembra essersi ricomposto. L’unica cosa che rimane di quella brutta storia è un nastro da cantiere, che continua a penzolare da un ramo e una madre che corre in una tuta rossa con una grande scritta: Russia.
La natura, come nel finale di Leviathan, assiste impassibile al nostro passaggio e sembra custodirne, in fondo, segni e segreti, che nessuno riesce più ad interpretare.
Apocalittico.
CREDITS
Andrey ZVYAGINTSEV – Director
Andrey ZVYAGINTSEV – Script / Dialogue
Anna MASS – Film Editor
Evgeny GALPERIN – Music
Andrey DERGACHEV – Sound
Andrey PONKRATOV – Set decorator
Oleg NEGIN – Script / Dialogue
Mikhail KRICHMAN – Director of Photography
CASTING
Maryana SPIVAK – ZHENYA
Alexey ROZIN – BORIS
Matvey NOVIKOV – ALYOSHA
Marina VASILYEVA – MASHA
Andris KEISHS – ANTON
Alexey FATEEV – COORDINATOR