The Wolf of Wall Street. Recensione in anteprima!

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The Wolf of Wall Street ***

This right here is the land of opportunity. This is America. This is my home! The show goes on!

Jordan Belfort

Il nuovo film di Martin Scorsese è il racconto, feroce e travolgente, di un’ambizione senza confini.

Il suo ritratto del microcosmo dei broker di Wall Street è più efficace di un trattato di antropologia culturale.

Qualcuno potrà pensare che sia immorale dedicare un film di tre ore, interpretato dalla più grande star di Hollywood, a quello che si rivelerà alla fine solo un piccolo criminale tossicodipendente, un truffatore che già prima dei trent’anni aveva accumulato una fortuna, carpendo la fiducia degli americani della classe media, e riciclando i soldi con la droga e le banche svizzere.

Ma è vero esattamente il contrario: Martin Scorsese è sempre stato attratto da personaggi fuori misura, violenti, seduttori, squilibrati. Perdenti che hanno assaporato il gusto inebriante della vittoria. Ma nel raccontare la loro parabola, il regista newyorkese è sempre riuscito a dirci qualcosa della giungla in cui vivono.

Una giungla chiamata America, fatta di strade, automobili, ring, così come di salotti della buona società, ambulanze, studi televisivi ed uffici open space in cui l’occhio si perde, tra scrivanie e telefoni, senza più orizzonte.

Certo Scorsese non ha il senso del tragico dell’ultimo Allen, che riparte idealmente dalla fine, per svelare, a poco a poco, le contraddizioni di una vita fasulla, la perdita di coordinate, il vuoto esistenziale, le piccole crepe che diventano voragini.

Lo sguardo di Scorsese è quello di uno straordinario osservatore, acuto, originale. E’ lo sguardo di un moralista, che non ha bisogno di prediche. E’ la sua stessa autobiografica ad aver determinato il suo punto di vista.

Amato molto più all’estero, che non nel proprio paese, negli ultimi quindici anni il suo lavoro è stato canonizzato e celebrato anche negli Stati Uniti, con colpevole ritardo. Sono arrivati i premi attesi da una vita, i grandi incassi e la collaborazione con una nuova generazione di giovani attori.

Eppure il suo cinema si è fatto via via più conciliante: il tema della strada e della violenza, come fondamento dei rapporti sociali, ha lasciato spazio all’amore cinefilo, al recupero nostalgico del passato. Persino il suo poliziesco da Oscar, The Departed, era il remake di un film di Hong Kong, ambientato a Boston e non nella sua New York, tra uomini che non raccontano mai la verità.

The Wolf of Wall Street segna il ritorno in grande stile al racconto epico, con al centro un piccolo gruppo agguerrito e amorale, che inevitabilmente ricorda i capolavori del passato Quei bravi ragazzi e Casinò.

Il protagonista è Jordan Belfort: giovane ventiduenne, ambizioso e già sposato, viene assunto alla Rotschild e diventa il protetto del senior broker Mark Hanna, che gli insegna tutto quello che c’è da sapere del suo nuovo mestiere: “the name of the game, moving the money from the client’s pocket to your pocket“.

E nel farlo occorre mantenere l’equilibrio, grazie a due elementi indispensabili: sesso e cocaina. Jordan ci mette pochissimo ad adattarsi, ma arriva il Black Friday del 1987 e la Rotschild chiude i battenti.

In cerca di occupazione, si imbatte in una piccola società di Long Island, specializzata in azioni spazzatura, le cosiddette “penny stocks“. Sono azioni di società senza valore, vendute a postini, impiegati, idraulici. Non ci sono computer negli uffici, nè grossi clienti al telefono. Ma il margine è altissimo. La commissione su queste azioni è del 50%.

Per Jordan, che ha imparato il mestiere a Wall Street, adattarsi a vendere poche migliaia di dollari in azioni ad investitori sprovveduti e senza cultura è un gioco da ragazzi ed i suoi guadagni crescono vertiginosamente. Sino a quando un curioso vicino di casa, strampalato, ma entusiasta, non lo spinge a mettersi in proprio. Reclutato un gruppo di amici d’infanzia, con nessuna esperienza nel settore, ma capaci di vendere qualsiasi cosa, li istruisce a dovere e li convince a seguirlo in un business che farà diventare tutti molto ricchi in brevissimo tempo.

Nasce così la Stratton Oakmont, un nome altisonante, solido, che serve ad occultare la realtà di un gruppo di sprovveduti, decisi a far soldi a qualsiasi costo.

L’intuizione geniale, suggeritagli dalla moglie Teresa, è quella di puntare peró ai veri ricchi, operando contemporaneamente sul mercato delle “blue chips“. In tal modo la Stratton Oakmont avrebbe potuto ottenere la fiducia di investitori facoltosi, solo per riempire i loro portafogli con tonnellate di “penny stocks“, guadagnando una fortuna in commissioni.

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Il giochino riesce e la società, nata in un’officina dismessa, cresce sino ad occupare uffici di cui non si vede la fine: siamo nei clintoniani anni ’90, l’ultima età dell’oro del capitalismo americano, convinto di poter crescere senza fine e senza ostacoli.

La trovata scenografica di Scorsese e di Bob Shaw è brillante. La macchina da presa vola sulle scrivanie, si muove in orizzontale e verticale, misura uno spazio che sembra non avere confini reali. I soffitti bassi, il muro delle scrivanie e dei telefoni funziona perfettamente, per rendere evidente l’immagine di un gruppo di animali in gabbia. Non a caso, nello spot televisivo della società, è un leone ad aggirarsi in quegli spazi e nel film vedremo anche pesci rossi, scimmie e serpenti su quelle scrivanie.

La vita di Jordan cambia radicalmente. Il suo stile diventa ancor più selvaggio, animalesco: lascia la moglie e sposa una modella bionda e seducente, acquista una nuova villa a Long Island – che curiosamente sembra quella dei Corleone del Padrino – ed uno yacht che ospita persino un elicottero. Nel frattempo la sua dipendenza dalle droghe e dal sesso diventa sempre più evidente.

A mettere un po’ d’ordine nella sua vita ci pensa il padre Max, che tutti chiamano Mad Max, per i suoi modi bruschi e aggressivi.

Forbes finalmente si accorge del suo lavoro alla Stratton Oakmont e gli dedica un profilo controverso, ma anche la SEC e l’FBI sono sulle sue tracce, per frode e riciclaggio.

La caccia è aperta.

Scorsese non sembra aver perso la capacità di sintetizzare con le immagini e la musica, i momenti più significativi del suo racconto. Anche qui il blues di Elmore James e John Lee Hooker, la musica classica di Purcell ed una cover Mrs.Robinson, vorrebbero giocare un ruolo di primo piano. Ma le scelte musicali non sono sempre perfette e questa volta rimangono per lo più sullo sfondo.

Le sequenze da ricordare si sprecano, a cominciare dalla lunga introduzione, che comincia con i nani lanciati come freccette, passando per il primo incontro con Naomi e per le pratiche sadomaso con una dominatrice, sino all’inquietante overdose da quaalude a bordo di una Lamborghini.

Non tutto funziona perfettamente: la parte italiana, che si conclude con il naufragio ed il salvataggio dei protagonisti in mare è debole e mal costruita.

Leonardo Di Caprio è sovreccitato, febbrile, sopra le righe. La sua è un’interpretazione in costante overacting. Il suo volto è quello seducente di un lupo, pronto a sbranarti. Nel film, Scorsese alterna la sua voce off al racconto diretto, sguardo in macchina, così come avveniva anche per l’Henry Hill di Quei bravi ragazzi.

Ma chi ruba la scena a tutti è ancora una volta Matthew McConaughey, nel ruolo del mentore, Mark Hanna. Gli bastano cinque minuti all’inizio, per lasciare il segno in maniera determinante. Il suo duetto con Di Caprio è terrificante e dà il tono a tutto il film. Calmo, rilassato, con la voce bassa ed i toni affabili è l’immagine stessa del successo che Jordan vuole raggiungere. Quando vediamo, alla fine, le centinaia di broker della Stratton Oakmont ripetere i gesti e il motivo che Hanna aveva improvvisato a pranzo con Belfort, comprendiamo davvero quello che rappresenta: un rituale che si tramanda oralmente, un segno di appartenenza ad una comunità primitiva, per molti versi.

Il montaggio di Thelma Schoonmaker non è tuttavia incalzante e decisivo come altre volte e qualcosa nei tre discorsi di Di Caprio ai suoi broker avrebbe potuto essere limato, mentre la fotografia di Rodrigo Prieto fa rimpiangere i carrelli di Michael Ballhaus e le luci bianche ed i colori anti-naturalistici di Robert Richardson.

Nella regia di Scorsese c’è forse un’ombra di manierismo, in alcuni momenti di esibita volgarità, quasi a voler ricordare al suo pubblico che, nonostante i settant’anni, non ha perso il gusto per la provocazione: sono forse gli unici limiti di un film che comunque di staglia nel panorama sempre controverso della produzione hollywoodiana.

Non poteva scegliere momento più adatto, Scorsese, per mettere sotto la sua lente il mondo della ricchezza facile e senza regole dei finanzieri d’assalto, smascherando ancora una volta la menzogna e l’ipocrisia del sogno americano. Dietro le belle parole ed i discorsi motivazionali non c’è altro che il nulla più osceno: rappresentare la finanza immateriale è impossibile, così come ci ricorda il personaggio di McConaughey, i movimenti devono rimanere ipotetici, impalpabili, sganciati da qualsiasi realtà, perchè quello che conta è far soldi, il più in fretta possibile, senza curarsi che di se stessi, travolgendo chiunque si frapponga al nostro successo.

E’ per questo che le “vittime” non hanno mai cittadinanza nel film, così come non ne hanno la produzione, i contratti, i titoli, gli stabilimenti, le scelte manageriali.

Scorsese usa l’iperbole per descrivere il cuore della faccenda: esattamente come Casinò, anche The Wolf of Wall Street è una sinfonia sui soldi. Non ci sono famiglie che contino, non ci sono figli o amici. Non c’è senso morale. In una nazione nata sulle strade e costretta a combattere per la propria sopravvivenza, le regole sono solo un ostacolo.

Rispetto al passato, qui la violenza è meno esibita ed ostentata, occultata dai bellissimi gessati di Armani.

E la giustizia è solo un incidente di percorso, con la quale si può sempre venire a patti.

Alla fine di tutto, quello che rimane è l’illusione. L’illusione dello spettacolo a cui tutti vogliamo credere. Un uomo solo al centro della scena, una luce che lo illumina, un pubblico che vuole essere ingannato. Gli occhi fiduciosi e ingenui osservano il protagonista. Sono i nostri. La truffa continua, perchè siamo noi a darle sostanza. 

Sell me this pen!

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