Promised Land. Recensione in anteprima

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Promised Land **

Il nuovo film di Gus Van Sant avrebbe dovuto segnare il debutto dietro la macchina da presa di Matt Damon, che ne aveva curato la produzione e la sceneggiatura assieme a John Krasinski, a partire da un soggetto dello scrittore Dave Eggers.

Poi Damon deve averci ripensato, affidando la regia di un’opera certamente personale e sentita, al regista di Will Hunting e Milk.

Questo Promised Land è quindi, per Van Sant, un’opera su commissione, che lascia sullo sfondo i temi forti del suo cinema, dal mondo inquieto dell’adolescenza alla ricerca dell’identità sessuale e personale.

Eppure si tratta di un film riuscito, pur mantenendosi in gran parte, come avviene quasi sempre nelle opere mainstream del regista di Portland, all’interno di canoni classici di messa in scena.

Pochissime le sperimentazioni visive e ridotte a zero quelle narrative, in un film costruito attorno ai personaggi, segno evidente del fatto che i due sceneggiatori sono anche i protagonisti della storia.

Matt Damon è Steve Butler, giovane nuovo vicepresidente della Global, una società che si occupa di trivellazioni alla ricerca del gas naturale, sfruttandone il potenziale energetico.

Così come avveniva alla fine dell’ottocento per i giacimenti di petrolio, i manager della società battono l’America di Provincia cercando di acquisire i diritti di trivellazione, offrendo soldi facili ed una piccola percentuale sullo sfruttamento successivo.

In un territorio depresso da un’economia rurale sempre più insostenibile, aggravata dalla crisi economica internazionale, Damon e la sua collega, Sue, sembrano avere sulle prime, gioco facile a conquistare terreni e contratti.

L’unico ad opporsi è un professore di fisica in pensione, in realtà un laureato al MIT con esperienza nelle multinazionali che mette in guardia i suoi concittadini dai pericoli della trivellazione per le falde acquifere e la salute.

Ad affiancarlo arriva improvvisamente un giovane ambientalista, Dustin, spregiudicato e implacabile nel denunciare le omissioni ed i silenzi della Global.

Sullo sfondo di questa lotta porta a porta, c’è anche una giovane insegnante, che si è trasferita da poco dalla città alla casa paterna in campagna e che sembra subire il fascino dei due contendenti, Steve e Dustin.

Ma non tutto è come sembra e Steve dovrà fare i conti con il suo passato e con la strategia senza scrupoli della Global.

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Il film ha un messaggio di fondo ambientalista (…e conservatore), ma espone i termini della questione in maniera sostanzialmente onesta. L’approvvigionamento energetico, necessario ad un paese leader come gli Stati Uniti, è ancora legato all’alternativa tra le tecnologie antiche del carbone e del petrolio ed il gas naturale, che sembra rappresentare una fonte pulita.

Nessuno dei due campi però offre soluzioni sicure per l’uomo e per l’ambiente.  Le trivellazioni distruggono l’ecosistema e inevitabilmente portano alla contaminazione ed allo smantellamento di un mondo rurale e di provincia orgoglioso delle sue tradizioni.

La battaglia che l’ILVA e la magistratura stanno combattendo a Taranto in questi giorni non è molto diversa dall’interrogativo al cuore del film di Van Sant: consentire una produzione inquinante e disastrosa per la salute e l’ambiente oppure rassegnarsi al declino economico e industriale?

E’ una scelta senza vincitori, in cui sarebbe forse necessario cambiare le variabili radicalmente, promuovendo uno sviluppo ecosostenibile.

Quante volte nel film i personaggi ricordano che quella terra che calpestano appartiene alla loro famiglia da generazioni.

L’orgoglio tutto americano della terra strappata alla natura, il mito stesso del viaggio verso ovest e della frontiera, è un tema non solo locale, ma comune a molti, anche nella vecchia Europa.

Il gioco delle multinazionali energetiche è quello di allettare territori in profonda depressione economica, con offerte che non si possono rifiutare: in ogni caso, per quei paesi e quelle province il destino sembra essere segnato.

Che accettino o meno di cedere i diritti di sfruttamento, quelle case, quelle fattorie, quelle comunità sono destinate a scomparire, a rinchiudersi in una povertà senza uscita. Il modello di sviluppo economico non è più sostenibile per loro: a farne le spese sono innanzitutto i figli, destinati ad un’educazione senza qualità, che li manterrà inchiodati inutilmente ai loro granai ed alle loro case coloniche, fino a che le banche non se le prenderanno.

Alla fine la scelta di Steve sarà radicale e appagante sul piano umano, ma il campo lungo che chiude il film sulle piccole case unifamiliari del paese sembra una fotografia malinconica di chi non può far altro che accettare il proprio destino nel modo più dignitoso possibile, preservando la bellezza della natura e le costruzioni dell’uomo, senza più alcuna speranza.

E’ un happy end amarissimo, quello di Promised land, l’unico possibile, forse.

Tra gli attori brilla in particolare Matt Damon, costretto tra un passato da dimenticare e un futuro da reinventare, capace di un interpretare Steve con la voce bassa, spesso rotta dai dubbi e dall’emozione.

Come sempre impeccabile e divertente Frances McDormand, nel ruolo della spalla Sue, vera forza motrice del duo invito dalla Global.

Perfetti i caratteristi Rosemarie De Witt, John Krasinski, il vecchio Hal Holbrook, Scoot McNairy e Titus Welliver che sembrano integrarsi con attori non professionisti, in un ritratto veristico dell’america rurale.

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P.S. Da segnalare che tra gli investitori del film c’è la Image nation di Abu Dhabi, di proprietà degli Emirati Arabi Uniti. La concorrenza si fa anche a colpi di film…

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