Quasi amici **1/2
Per raccontare il film di Toledano e Nakache, in originale Intouchables, preferiamo partire dalla fine, dai numeri: oltre 160 milioni di dollari d’incasso solo al botteghino francese, dove ha superato Avatar e resterà dietro solo a Bienvenue chez les Ch’tis (Giù al Nord). Uscito il 2 novembre scorso è rimasto in testa per 10 settimane di fila. Negli Stati Uniti l’hanno acquistato i fratelli Weinstein, che magari ne faranno un remake. Un trionfo.
In Italia non abbiamo numeri paragonabili, ma abbiamo avuto anche anche noi dei buoni successi nell’ultimo biennio: Benvenuti al sud (e ora anche al nord), che è appunto il remake di Bienvenue chez les Ch’tis, i cinepanettoni, gli Immaturi, Cetto La qualunque e Checco Zalone.
Moltissimi si sono genuflessi di fronte al modesto Che bella giornata, che pure ha incassato 100 milioni di meno di Quasi amici. Ed è proprio nella distanza siderale tra i due campioni d’incasso stagionali – una distanza di esiti, professionalità e profitti – che il nostro cinema si mostra approssimativo, fragile e schiacciato su un unico modello culturale: la commedia becera e superficiale, che pesca spesso furbescamente tra la spazzatura degli anni ’70 ed i modelli vanziniani.
Non c’è più analisi sociale ed economica, non c’è più studio dei caratteri, non ci sono più cattiveria e moralismo: bastano quattro comici (?) di Zelig, che cercano l’impossibile impresa di allungare sketch di 5 minuti, fino alla canonica ora e mezza.
E allora questo Intouchables – Quasi amici è una lezione che dovremmo imparare, senza la spocchia che caratterizza spesso i nostri rapporti con i cugini d’oltralpe. Perchè ci dice quanto il cinema francese negli ultimi vent’anni sia diventato un’industria solida e remunerativa, che ha in sè la capacità di promuovere il talento dei suoi autori più originali, sostenendosi attraverso la forza dei suoi film di genere.
E dimostrando che si può fare una commedia divertentissima e popolare, anche partendo dalla storia vera di un ricco tetraplegico e del suo occasionale assistente, e che si può fare cinema mainstream, senza per forza sollecitare i nostri istinti più bassi, senza giocare con la commozione e le emozioni, senza costringere il pubblico a subire passivamente.
Toledano e Nakache si fanno beffe del perbenismo e della solidarietà ipocrita, che spesso circonda i disabili, per riaffermare ancora una volta il diritto alla ricerca della felicità, anche su una sedia a rotelle, mettendosi in gioco e sporcandosi le mani con la vita e con la morte. La forza del film sta tutta nella sceneggiatura, che evita ogni lacrima facile e ogni sottolineatura prevedibile, parlando dei due handicap, quello fisico di Philippe e quello sociale di Driss, con ironia e senza impietosire.
Il ricco Philippe, vive in un enorme appartamento parigino. Un incidente sportivo l’ha costretto sulla sedia a rotelle, immobile dal collo in giù. Anche la moglie è morta prematuramente ed ora è in cerca di un nuovo assistente.
Driss invece è un giovane senegalese appena uscito di prigione, la madre lo ha cacciato di casa e ha bisogno del sussidio di disoccupazione, per sopravvivere.
Si presenta da Philippe, convinto di ricevere un veloce rifiuto che, sommato ad altri precedenti, gli consenta di accedere al sussidio.
Invece i suoi modi spicci, la sua ironia contagiosa ed il suo anticonformismo, spingeranno Philippe a prenderlo in prova per un mese.
Driss naturalmente non sa nulla di handicap e tratta Philippe come una persona qualunque. Si rifiuta di mettergli le calze contenitive, gli passa il telefono, dimenticandosi che non può muovere le mani, lo convince a calmare i dolori fumando marjiuana e lo accompagna in giro, non sul furgone appositamente attrezzato, ma sulla velocissima Maserati, ferma dal giorno dell’incidente.
E’ un espediente narrativo classico: creare una strana coppia, in cui gli opposti, che dovrebbero respingersi, finiscono per attrarsi e completarsi.
Driss ascolta la musica classica amata da Philippe e quest’ultimo invece comincia ad apprezzare il soul ballato dal suo incontenibile assistente.
Ci saranno corse in auto spericolate, voli in parapendio, massaggiatrici compiacenti ed anche una relazione epistolare, che si farà più consistente.
La vitalità del suo assistente finisce per contagiare il serioso Philippe, almeno sino al momento in cui uno dei fratelli di Driss si presenta alla porta…
Quasi amici procede veloce e senza pause: tratto da una storia vera, avrebbe potuto facilmente scadere nel patetico o nella banale riproposizione dei clichè.
Invece i due registi sfruttano alla perfezione i tempi comici di Omar Sy e di Francois Cluzet, per scardinare una volta per tutte molti pregiudizi sulla malattia.
Certo, il protagonista è un tetraplegico sui generis, ricchissimo e aristocratico. Ma l’immobilità in cui è costretto rischia di essere amplificata dall’ipocrisia di protocolli che soffocano i malati con cure e attenzioni esagerate. Il disagio non è mai affrontato a viso aperto, ma seppellito in una cautela, che non fa altro che accentuare le diversità.
Invece Driss non ha paura a contraddire Philippe, a trascinarlo, a forzarne le scelte. Non c’è nessuna comprensione perbenista per la sua malattia: per chi arriva da una famiglia disastrata ed è cresciuto nella durezza delle periferie, in cui l’unica via d’uscita sembra la criminalità, la diversità di Philippe non è tanto quella dell’handicap, ma quella sociale e culturale.
Si ride di gusto alle scorrettezze di Driss, perchè non c’è mai vera cattiveria, piuttosto il tentativo di ridare gusto ad una vita ormai priva di sapori, con la generosità e l’incoscienza di un animo semplice.
Anche viaggiando senza limiti, inseguiti dalle auto della polizia.
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