Il settimo film di Kore-Eda in concorso al Festival di Cannes, dopo il Premio della giuria per Like Father, Like Son, la Palma d’Oro per Affari di famiglia e il riconoscimento al miglior interprete per l’ultimo Broker, è uno dei suoi esiti maggiori, capace di rinnovare continuamente la tensione narrativa attraverso una struttura che amplifica la complessità dei temi in gioco e ci tiene ancora una volta in scacco: credevamo di aver compreso i confini della storia, in realtà eravamo lontanissimi dalla verità.
Diviso narrativamente in tre parti e aperto dall’incendio di un “Hostess bar” nella notte di Suwa, la piccola cittadina della provincia di Nagano dove si dipana il racconto, il film ci inganna sulla natura del rapporto tra i due giovanissimi protagonisti, Minato e Hoshikawa.
Compagni di classe, ancora giovanissimi, il film li allontana per poi riavvicinarli nell’ultimo atto, coronamento formidabile di una storia che racconta come la paura dei propri sentimenti finisca per dilaniare non solo i due protagonisti, ma le loro famiglie e l’ambiente scolastico.
Nella prima parte, il punto di vista è quello della madre di Minato, Saori, che nota una serie di atteggiamenti e comportamenti sempre più strani nel figlio. Li attribuisce erroneamente al professore Mr.Hori, che lo avrebbe vessato e offeso, colpendolo addirittura in volto.
Gli incontri di Saori con la preside e il corpo docente sono un capolavoro di nonsense e formalismo giapponese, che rendono ancor più furiosa la donna.
Nella seconda parte il punto di vista è quello del professore, che vede in Minato un bullo e in Hoshiwaka una vittima. La sua carriera viene travolta dalle bugie e dalla vergogna, prima che la verità lo illumini.
Nulla è come sembra. Nell’ultima parte comprendiamo realmente quali sono i confini e le ragioni di Minato e Hoshikawa, prima che un’alluvione rimetta tutto in discussione.
Il lavoro di Kore-Eda è sublime ed ellittico. Per oltre un’ora e mezza ci fa brancolare nel vuoto del pregiudizio, della menzogna, dell’inganno di comodo, parlando di bullismo, di sopraffazione, di educazione familiare e scolastica. Senza moralismo e senza mai alzare la voce Kore-Eda trova sempre la misura giusta, spingendosi sino al limite della vergogna e della colpa.
Poi pian piano ci fa capire che quello era solo uno schermo, una difesa di sentimenti e passioni ancora troppi forti, per poter essere dichiarati, perchè la scoperta della propria sessualità può essere traumatica e destabilizzante.
I rapporti tra i personaggi assumono sfumature diverse: quello che ci appariva chiaro, diventa assai più sfuggente.
E’ sempre una questione di sguardo. In questo caso quello degli adulti sui due ragazzi. Uno sguardo forte delle proprie certezze, accusatorio, del tutto incapace di penetrare la verità.
Le apparenze ingannano nel cinema di Kore-Eda. Questa volta ancora di più e il film rischia di sembrare fuori fuoco: una madre troppo apprensiva, un insegnante apparentemente gentile e poi via via travolto dagli eventi sino a pensare di poter chiudere ogni cosa con il sacrificio di sè. Le prime due parti si prendono il rischio dell’incongruenza, non tutto funziona a dovere, la scrittura non è sempre all’altezza. Poi arriva l’ultimo atto e quello che vediamo è di una bellezza e di una sincerità così travolgenti, che si dimenticano gli affanni del film e si resta rapiti dalla profondità del rapporto tra i due ragazzi, colti in quel momento misterioso del passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza in cui la forza dei sentimenti è talmente grande da intimorire.
Sono sempre le relazioni umane quelle che interessano il maestro giapponese, la loro fragilità, la loro purezza, la necessità di nascondere al mondo sentimenti e legami troppo forti per essere accettati e compresi. Le istanze educative sono incapaci di ascoltare davvero. Soprattutto la scuola sembra un luogo di formalismi e paure, di violenze psicologiche e sopraffazione, di omertà e punizione, da parte del corpo docente e di molti studenti, gli uni sugli altri.
La critica alla strutta sociale giapponese non è meno forte che in passato, come sempre in secondo piano rispetto alla necessità di una racconto umanissimo e dolente, che questa volta almeno si apre significativamente alla speranza.
La fotografia di Ryoto Kondo asseconda il naturalismo magico di Kore-Eda, la sua parsimonia di elementi e inquadrature, mentre le musiche in punta di piano sono le ultime firmate da Sakamoto prima della sua scomparsa e quando appare il suo nome, sui titoli di coda, si trattengono a stento le lacrime.
Perchè il gentile minimalismo del film consente alle emozioni di lavorare sottotraccia, senza sottolineature inutili, lasciandoci riflettere infine sulla bellezza dei volti dei due protagonisti, sporchi di fango e bagnati dalla tempesta, ma per una volta felici, finalmente in pace con la “mostruosità” dei propri sentimenti.
Coraggioso e limpido. Da non perdere.