Una camminata notturna in una città deserta, un uomo e una donna: sono le immagini in bianco e nero di Splendor di Ettore Scola con la voce di Martone che le accompagna con cui inizia questo curioso film del regista napoletano, che riesce nell’impresa di essere contemporaneamente omaggio affettuoso alla comicità di Massimo Troisi e saggio critico illuminante e raffinato, capace di ricollocare la sua figura all’interno del cinema italiano e della cultura partenopea di quegli anni.
L’obiettivo dichiarato da Martone, che rievoca il loro incontro ad un festival in Francia dove si proiettava il suo primo film, è quello di raccontare Trosi al di là della maschera, nella sua dimensione più autenticamente autoriale e artistica, come regista e intellettuale, che attraverso la messa in scena del suo alter ego sullo schermo riusciva a raccontare i mutamenti e le increspature della vita sentimentale, come accade all’Antoine Doinel di Truffaut.
L’intuizione, condivisa con gli autori dell’unico volume critico sul suo cinema, edito da Sentieri Selvaggi nei primi anni ’90, e con lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo è illuminante. Nei gesti ripetuti, nei rispecchiamenti, nelle corse a perdifiato, nell’incapacità a relazionarsi con le donne e col mondo, Troisi e il personaggio creato da Léaud e Truffaut condividono poeticamente una vita intera trascorsa sullo schermo.
Il documentario di Martone è parco di incontri e testimonianze, non vuole essere una carrellata di ricordi sparsi, ma seleziona criticamente quei contributi che servono al regista per tratteggiare un ritratto che dalla San Giorgio a Cremano natia, ci accompagna attraverso l’impegno studentesco degli anni ’70, la prima operazione al cuore a New York nel 1976, seguendo poi gli esordi in un piccolo teatrino off con I saraceni, il successo televisivo con La Smorfia e l’approdo naturale al cinema con il successo travolgente di Ricomincio da tre.
E qui Martone si fa accompagnare da un Virgilio d’eccezione: Anna Pavignano, torinese, femminista, studentessa di psicologia, compagna di Troisi per pochi anni tra la fine dei ’70 e i primi ’80, che scriverà con lui tutti i suoi film, fino al Postino di Neruda.
L’incontro è decisivo per delineare il suo continuo corpo a corpo con un universo femminile autentico, indipendente, maturo, destinato a confrontarsi con la natura fragile del suo personaggio, con i suoi dubbi, le sue incertezze, le sue malinconie.
Il dialogo tra Anna e Massimo non si interromperà mai sullo schermo, in un continuo aggiornamento di quei frammenti di discorso amoroso, che trovano il loro apogeo nel finale di Pensavo fosse amore e invece era un calesse, con quel magnifico carrello che chiude definitivamente l’esperienza da regista di Troisi.
La Pavignano mette a disposizione di Martone le registrazioni degli esordi, l’agenda del 1976, in cui la malattia e gli esordi si confondono significativamente, quindi la mole sterminata di appunti sparsi che Troisi raccoglieva, annotando idee, pensieri, dialoghi, emozioni, trasfuse solo in parte nei suoi spettacoli e nei suoi film.
Il regista va da Goffredo Fofi e poi da Paolo Sorrentino, emerge il desiderio di Troisi di essere un intellettuale capace di incidere sul reale come Pasolini, si accosta il suo nome a quello di Andrea Pazienza, si rievoca la temperie culturale che in quello scorcio finale degli anni ’70 avrebbe portato Antonio Neiwiller, Toni Servillo e lo stesso Martone, giovanissimi, a rifondare il teatro napoletano, orfano di Eduardo.
E posiziona Troisi al centro di quel movimento, ricordandone gli esordi off, le denunce e le rinunce – clamorosa quella a Sanremo – il suo modo di esorcizzare la morte, mettendola costantemente in scena: morto Troisi, viva Troisi!
Il film recupera le parole di Scola a cui l’attore si affiderà completamente per tre film che riconfigurano il suo personaggio nei rapporti filiali con un padre interpretato significativamente da Marcello Mastroianni. E poi quelle di Giuseppe Bertolucci, autore con Roberto Benigni della felicissima zingarata di Non ci resta che piangere, forse lontana dall’universo narrativo di Troisi, ma segno di una generosità a condividere sullo schermo quella simpatia che legava i due talenti nella vita.
Inevitabile infine il confronto con Pino Daniele, la cui musica avvolge Laggiù qualcuno mi ama, esattamente come accade con tutto il corpus filmico di Troisi, introdotto dall’arpeggio del tema di Ricomincio da tre e chiuso dall’armonico finale di Quando.
Un capitolo a parte rimane Il postino, interpretato da Troisi con la consapevolezza che rimandare il trapianto di cuore necessario, avrebbe minato la sua salute in modo irreparabile. La morte tuttavia lo attende pietosamente fino all’ultimo giorno di riprese, per rapirlo alla vigilia della nuova partenza verso gli Stati Uniti, dove l’attendeva una nuova operazione.
Il film di Martone tuttavia non cerca la commozione, rimane a ciglio asciutto e pur chiudendosi con le immagini del Postino, sceglie – come ricordato da Sorrentino – un finale improvviso, precipitoso, così tipico del cinema italiano degli anni ’80:
Pur restituendo perfettamente la dimensione emozionale del lavoro di Troisi, il film è rispettoso del suo modo schivo e antiretorico di porsi, del suo rifiuto di ogni facile stereotipo partenopeo.
Martone riesce a cogliere nella maschera di Troisi la forza popolare, che accomuna a quella dello stesso Scarpetta, entrambi autori e attori sul palcoscenico, capaci di un successo travolgente e di un’identificazione totale con il proprio pubblico.
In una città piegata dalle troppe Mani descritte da Francesco Rosi e poi dal terremoto del 1980, Troisi con la sua radicalità comica, con la sua curiosa ricostruzione dei tempi di scena, con il suo rifiuto di ogni censura, emerge con naturalezza come l’antieroe a cui quella Napoli si aggrappa e in cui si identifica, in quel continuo desiderio di riscatto e di rinnovamento, costantemente frustrati.
Da non perdere.