Emmett ‘Bo’ Till è un ragazzino afroamericano di quattordici anni di Chicago, trucidato e linciato a Money, Mississippi, nell’estate del 1955, mentre era in vacanza con i cugini dal prozio Moses Wright.
Un apprezzamento non gradito alla giovane proprietaria bianca di un emporio, Carolyn Bryant, scatena la furia del marito Roy e del fratellastro J.W. Milam. Nella notte del 27 agosto i due uomini lo rapiscono armi in pugno dalla casa di Moses. Il corpo sarà ritrovato nel fiume Tallahatchie il giorno dopo, talmente sfigurato dalle torture subite, da renderlo pressochè irriconoscibile.
Il film di Chinonye Chukwu, registra e sceneggiatrice di origini nigeriane, ricostruisce la storia di Emmett attraverso gli occhi della madre Mamie, il suo dolore, la sua dignità, la sua battaglia durante il processo in Mississippi e poi nella lunga marcia dei diritti civili.
Till è il terzo film della giovane regista che con il precedente Clemency è stata la prima afroamericana ad aggiudicarsi il Grand Prix al Sundance nel 2019.
Tuttavia rispetto al precedente, qui siamo all’interno di un lavoro che la sceneggiatura, scritta con Michael Reilly & Keith Beauchamp, impagina secondo un modello antico e risaputo, di solido stampo televisivo.
Anonimo nella messa in scena e invisibile nelle scelte di regia, Till racconta una delle pagine più abominevoli nella stagione dei diritti civili, ma lo fa stando ben attento a non suscitare scandalo.
Il brutale linciaggio di Emmett rimane fuori campo, una breve immagine del fienile in campo lungo da cui si odono delle urla e poco più. Rispetto alla lunghissima storia processuale, più volte riaperta, e sulle responsabilità opache di chi partecipò alle torture, nulla si dice.
La stessa scelta coraggiosa di Mamie di celebrare il funerale del figlio con la bara aperta, per mostrare le condizioni in cui il volto del ragazzo era stato brutalmente ridotto, non assume mai la forza che ci saremmo attesi.
Come spesso ci siamo chiesti in passato, di fronte ad opere che cercano di restituire la dimensione più endemica e ordinaria del Male, il cinema deve compiere innanzitutto una scelta morale: cosa mostrare, come mostrare, quale prospettiva scegliere, quale distanza.
La Chukwu segue la strada più facile, quella che si affida alla classicità hollywoodiana più impermeabile ad una vera scelta di campo e che riversa sulle spalle degli attori e di una onnipresente colonna sonora il compito di evocare una dimensione emotiva, capace di coinvolgere lo spettatore.
Troppo poco e troppo tardi, verrebbe da dire, perchè la storia Till è così straziante da non necessitare alcuna inutile sottolineatura.
Certo, Danielle Deadwyler, già vista in The Harder They Fall e in Ella & John – The Leisure Seeker di Virzì, è formidabile e capace di evocare ugualmente la grande determinazione del suo personaggio, la sua dignitosa ribellione allo status quo sudista e la progressiva presa di coscienza della necessità di una battaglia senza sosta per i diritti civili, ma avrebbe avuto ancora più forza all’interno di un film meno anodino.
Il dilemma è sempre lo stesso: quando una qualsiasi opera si prefigge l’obiettivo di sensibilizzare il suo pubblico su temi sociali e culturali, sposando invece forme regressive o conservatrici di sguardo e messa in scena, non sta forse utilizzando male i suoi strumenti?
Raccontare la storia di Emmett Till è encomiabile e necessario, ancora oggi. Farlo in un lavoro mainstream consolatorio come questo Till, prodotto tra gli altri anche da Barbara Broccoli, è un tentativo riuscito solo a metà, incapace di suscitare un qualsiasi vero turbamento.
Quanta più forza e radicalità perturbante ci sono nell’immagine scattata da David Jackson nel 1955, rispetto alle due ore di Till?
Anestetizzato.
In sala dal 16 febbraio per Eagle Pictures.