Conversazioni con un killer: Il caso Dahmer ***
La terza stagione della serie Conversations with a killer non poteva che nascere da Joe Berlinger, non solo il creatore del format, ma anche uno degli intrepreti più accreditati del racconto documentario sugli assassini seriali. Berlinger è infatti l’autore dei due precedenti capitoli del format, uno dedicato a Ted Bundy e l’altro a John Wayne Gacy. Dahmer rappresentava l’anello mancante, l’unico assassino seriale a ricevere la stessa esposizione mediatica dei due predecessori. Interesse mediatico che continua a ricevere anche oggi, come dimostra lo straordinario successo della serie di Ryan Murphy. Se Monster: The Jeffrey Dahmer Story è un prodotto di tipo finzionale, la docu-serie di Berlinger presenta un taglio diverso: più che un racconto su Dahmer è il racconto di Dahmer, attraverso le registrazioni su nastro effettuate dalla sua giovane legale, Wendy Patrickus, durante gli interrogatori. Proprio dall’incontro tra Jeffrey e Wendy, due giovani che avrebbero potuto trovarsi a chiacchierare in un bar invece che tra le squallide mura di una prigione, prende avvio la narrazione. Attraverso tre episodi, della durata di circa un’ora l’uno, Berlinger dispiega l’universo criminale, raccapricciante ed estremo, dell’uomo accusato di aver ucciso 16 giovani, per lo più omosessuali afroamericani e di aver abusato dei corpi prima e dopo la loro morte, praticando necrofilia e cannibalismo. Omicidi seriali estremi quindi, diversi da quelli di Bundy che si rivolgeva a giovani ragazze, per lo più studentesse bianche di famiglia borghese e da quelli di Gacy che colpiva ragazzi gay (e non) per lo più bianchi che lavoravano nella sua impresa durante il periodo estivo. Diversa è anche la personalità dei tre assassini: là dove in Bundy e Gacy c’è il desiderio di una gratificazione sociale, addirittura politica, in Dahmer c’è piuttosto l’aspirazione all’anonimato, alla soddisfazione di un impulso tutto raccolto nell’intimità della propria casa. Le differenze appaiono evidenti anche a livello retorico, ascoltando la voce dei tre. L’affabulazione avvolgente di Bundy e il tono sicuro di Gacy lasciano qui il posto a una voce sommessa e monotona, senza enfasi, senza intonazione, senza vibrazioni. Una voce così noiosa da apparire terribilmente normale anche quando racconta azioni che normali non sono.
Ritroviamo così i tratti distintivi dello sguardo di Berlinger: attenzione alle vittime e al contesto sociale dell’epoca; ricostruzione accurata dell’ambientazione, cioè di quello specifico territorio di caccia che per Dahmer corrispondeva alla comunità omosessuale di Milwaukee; ampio utilizzo non solo dei nastri registrati in carcere, ma anche di filmati d’epoca, per lo più tratti da telegiornali locali e nazionali. Berlinger dà voce anche a coloro che si sono occupati del caso, come investigatori, avvocati o giornalisti, presentando una pluralità di punti di vista non sempre allineati, ma di grande efficacia nel descrivere l’effetto dirompente del serial killer sulle vite di una molteplicità di persone. Spesso ci si limita ad attribuire a queste figure la responsabilità delle famiglie distrutte dal dolore per i propri cari, in genere giovani, strappati alla vita senza una ragione; Berlinger riesce però a farci percepire come il dolore inconsolabile si rifletta anche sulle vite di moltissime altre persone che con Dahmer si sono interfacciate, nella maggior parte dei casi per lavoro. Allargando il discorso potremmo anzi notare come l’esposizione mediatica della vicenda, che per mesi ha occupato le prime pagine di tutti i quotidiani nazionali, porti con sé delle conseguenze per l’intera nazione: basti a riguardo citare una ricerca universitaria, riportata da Richard Tithecott, secondo cui 10 americani su 10 erano in grado di abbinare la parola serial killer con l’immagine di Dahmer1.
La vicenda del ‘Cannibale di Milwaukee’ fece scalpore, ispirando racconti e film e alzò l’asticella del narrabile a un livello fino a quel momento mai raggiunto. Una forma di violenza estrema che ha nutrito per settimane il pubblico con una molteplicità di particolari macabri di cui l’opinione pubblica non sembrava volersi saziare. Proprio come lo sguardo dello spettatore contemporaneo, che esplora la serialità alla ricerca di un ulteriore livello di visibilità, superando ogni barriera rappresentativa e ogni consuetudine narrativa in una tensione senza freni verso l’estremo. In questo Dahmer è uno dei serial killer più moderni: ha spostato la soglia del visibile, del racconto, dando forma a qualcosa che prima non era immaginabile né rappresentabile.
Il suo profilo peraltro, così diverso da quelli di Bundy e di Gacy, era immerso in una asocialità che lo ha reso per anni irrintracciabile, mimetizzato tra la gente comune. Berlinger non risparmia domande scomode su come sia stato possibile che nessuno si sia accorto di niente. Sulla questione, peraltro riproposta da tutti i media della nazione nelle settimane successive alla cattura di Dahmer, pesa come un macigno il pregiudizio verso la comunità gay di Milwaukee. Un pregiudizio di cui suolo oggi siamo però consapevoli. E’ questo uno dei valori aggiunti che porta la rilettura di una storia a distanza di anni: acquisire dei punti di vista, storicamente situati, che in precedenza non erano attivati. La polizia della città sul lago Michigan scelse di non indagare sulle numerose sparizioni di giovani di colore che frequentavano i locali notturni della comunità omosessuale per disinteresse, ma anche per non incorrere in accuse di molestie o di discriminazioni sessuali. Il loro fu un lasciar fare che mise Jeffrey nelle condizioni migliori per agire del tutto indisturbato. Quando venne interrogato un ragazzo fuggito dal suo appartamento e segnalato a vagare per la strada, la polizia decise di non andare a fondo nell’indagine, dando per scontato che le pratiche sessuali dei gay fossero per loro natura strane. Una forma di pregiudizio ad excludendum che spinse le forze dell’ordine a chiudere un occhio e al contempo a voltare la testa dall’altra parte, favorendo, con entrambi i comportamenti, gli omicidi seriali di Jeffrey Dahmer
Nel corso del racconto Dahmer esprime a più riprese la consapevolezza di aver compiuto cose tremende, per le quali però non ha mai provato emozioni come disgusto o rimorso. L’unico rimorso di Dahmer è quello di non provare rimorso: un’analisi lucida e distaccata che lascia lo spettatore senza argomentazioni, senza rabbia o desiderio di vendetta. La salute mentale di Dahmer è ampiamente trattata nel terzo episodio che, in modo significativo, si intitola Evil or Insane?
Nel complesso il racconto mantiene compattezza e completezza per tutte le tre puntate, mostrando, anche negli inserti filmati in studio, credibilità ed efficacia. Ci fornisce così uno sguardo, storicamente situato, su di una delle figure più drammatiche della storia del crimine americana.
TITOLO ORIGINALE: Conversations with a killer: The Jeffrey Dahmer Tapes.
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 55 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 3
DISTRIBUZIONE STREAMING: Netflix
GENERE: Docu Crime Biography
CONSIGLIATO: a quanti amano lo stile di Berlinger, la sua attenzione al contesto in cui si sviluppano gli omicidi seriali e all’ambiente culturale che li consente/facilita. Anche questa terza stagione della produzione Conversations with a killer presenta scorci agghiaccianti sulla natura umana.
SCONSIGLIATO: a quanti si aspettano un prodotto incentrato su Dahmer e capace di dirci qualcosa di più sulla sua natura. Al termine della serie ci ritroviamo ancora una volta impotenti di fronte al mistero di una mente chiaramente malata.
VISIONI PARALLELE: la versione affascinante e cinematografica di Dahmer è da rintracciare nel film “Il silenzio degli innocenti”. Ma se volete invece restare legati alla figura reale del serial killer, allora la scelta obbligata è la produzione di Ryan Murphy che Alessandro Vergari ha recensito per il nostro sito.
UN’IMMAGINE: solo in un frangente delle conversazioni riportate si percepisce un’emozione nella relazione tra Dahmer e l’avvocatessa Patrickus: quando questi scopre che due delle sue vittime appartenevano alla stessa famiglia. Un’emozione che si trasmette allo spettatore per assenza: Dahmer si limita a fare una pausa di qualche secondo prima di ammettere di non esserne stato a conoscenza. Quei secondi di silenzio, in cui resta letteralmente senza parole, ce lo fanno sentire più umano.
1 Mario A. Iannacone, Meglio Regnare all’inferno. Perché i serial killer popolano il cinema, la letteratura e la televsione. Lindau, 2017.
Ovunque ne sento parlare come una serie horror, quando in effetti neanche si avvicina a Henry, pioggia di sangue di John McNaughton. A me pare più un Mindhunter+Dexter ma chissà.