Pinocchio di Guillermo Del Toro * 1/2
Dopo le versioni antitetiche di Matteo Garrone e Robert Zemeckis arriva su Netflix per Natale un nuovo Pinocchio, firmato da Guillermo Del Toro e Mark Gustafson, in stop motion.
Se il lavoro d’animazione è splendido e molto evocativo, restituendo per una volta tutta la natura grezza e legnosa del burattino protagonista, è invece sconcertante il trattamento riservato alla storia di Carlo Collodi da Del Toro e dal co-sceneggiatore Patrick McHale.
Svuotando e sventrando il libro pubblicato a puntate nel 1881, ambientato in un’Italia fresca di unità, Del Toro mantiene solo l’essenza del burattino animato, costruendo una storia interamente diversa nel tempo, nello spazio, nei suoi elementi essenziali, nei suoi caratteri e persino nei motivi e nella morale.
Il titolo ci avverte che questo è il Pinocchio di Guillermo Del Toro, tuttavia qui siamo ben oltre la legittima infedeltà dell’adattamento.
Il film comincia con il falegname Geppetto che in un piccolo borgo italiano perde il suo unico figlio Carlo, durante i bombardamenti della Prima Guerra Mondiale: sulla chiesa in cui ha appena posato il suo Cristo di legno cade un ordigno che spezza la vita del suo bambino e in fondo anche la sua, irrimediabilmente.
Passano gli anni e dall’albero che è cresciuto accanto alla tomba di Carlo, Geppetto decide di forgiare un burattino che lo ricordi, senza accorgersi che nel legno ha trovato albergo Sebastian J. Cricket, un grillo scrittore.
Siamo nell’Italia di Mussolini che si appresta ad entrare in guerra nuovamente. Grazie ad una creatura della foresta, nella notte il burattino si anima e prende vita.
Quando il Podestà si accorge del prodigio lo immagina come il soldato perfetto per la Patria fascista. Ma il più abile è il Conte Volpe, che gli fa firmare un contratto per il suo spettacolo itinerante, in cui Pinocchio si esibisce con le altre marionette, i cui fili sono retti dalla scimmia Spazzatura.
L’attrazione si sposta da nord a sud, da Alessandria a Catania: Geppetto e il grillo sono sulle sue tracce, ma sempre un passo indietro. I due contano di riabbracciare Pinocchio in Sicilia, alla fine del viaggio, ma la barca su cui attraversano lo stretto viene inghiottita da un enorme pescecane.
Nel frattempo a Catania il Duce in persona assiste allo spettacolo di Pinocchio, che finisce arruolato nella Gioventù Fascista con Lucignolo, il figlio del Podestà.
Il lavoro di del Toro sul testo collodiano è francamente assai poco intellegibile. E’ pur vero che a Hollywood sono diventati riciclatori formidabili di immaginari altrui, capaci di unire sincreticamente prequel, sequel, reboot, remake, lasciando che i confini di queste pratiche narrative sfumino gli uni negli altri ed è anche vero che le interpretazioni e gli adattamenti dalla fiaba di Collodi sono ormai talmente numerosi da ammettere qualsiasi stravolgimento.
Tuttavia questa animazione travisa completamente il racconto originale, in favore di un burattino tagliato a misura sulle ossessioni di Del Toro, che sconfessa completamente i caratteri collodiani. Freaks e fenomeno da baraccone, sfruttato e trasformato in una marionetta del regime e poi in Balilla, Pinocchio non è un monello che marina la scuola, dimentica i consigli di Geppetto e del Grillo Parlante finendo per cacciarsi nei guai, traviato dalle cattive amicizie, ma è invece un diverso che va integrato, reso conforme.
Non sono le esperienze negative con Lucignolo, Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe e i buoni consigli della fata turchina a condurlo sulla retta via dello studio, attraverso il recupero dell’affetto familiare di Geppetto, ma è invece fortificando e mantenendo il suo spirito ribelle che riesce nell’impresa. La sua dimensione vera sta nella disobbedienza, nello sberleffo al potere, nella rottura esplicita delle convenzioni.
Temi evidentemente prossimi all’universo di Del Toro, ma piuttosto lontani da quello di Collodi, come dimostra anche la trasformazione della Città dei Balocchi in un campo di addestramento della gioventù fascista.
La stessa dimensione del rapporto con Geppetto è completamente travisata. Il falegname costruisce, da ubriaco, un simulacro che gli renda più lieve il dolore per la perdita del suo amatissimo bambino. La creazione è un momento che sembra strappato al Frankenstein di Mary Shelley.
Si perdono, nella semplificazione e nella condensazione di Del Toro, alcuni dei personaggi più formidabili del romanzo, che proprio nella ricchezza dei caratteri e degli incontri, costruiva il percorso formativo e pedagogico del suo burattino.
Si tratta di un percorso pedagogico e formativo superato? Troppo conservatore? Probabilmente sì, anche se testimonia perfettamente quell’Italia di fine Ottocento in cui è stato pensato. Un percorso peraltro che dall’adattamento televisivo di Comencini degli anni ’70, passando per l’apocrifo A.I. di Spielberg e Kubrik e arrivando sino all’incarnazione di Matteo Garrone, sembrava avere ancora molto da dire.
La lettura del regista messicano è certamente personale, ma emerge da un racconto completamente stravolto in cui non solo si faticano a riconoscere i confini originali, ma che banalizza la storia del burattino immergendolo in nuove avventure che francamente non aggiungono nulla e non riescono a sostituire la forza evocativa di quelle originali.
Più che un atto di amore verso un personaggio affettuosamente reinventato, l’operazione di Del Toro sembra macchiarsi soprattutto di quella hybris sconfinata, che spesso coglie coloro che si trovano a lavorare per Netflix.
Il Pinocchio antifascista per burla di Del Toro ce lo saremmo volentieri risparmiato. Peccato che la modestia del nuovo racconto si scontri con un lavoro d’animazione invece esemplare e pertinente, di grande originalità che avrebbe tuttavia meritato un film meno aleatorio e ottuso.
Notevoli anche le musiche di Desplat, che immergono il film in un’atmosfera giustamente sinistra, ma che si scontrano con testi, curati anche dallo stesso Del Toro, al servizio di questa sua personalissima versione alternativa.
Nel complesso, una grande delusione.
Dal 9 dicembre su Netflix.