Il nuovo film di Rodrigo Sorogoyen, portentoso ed eclettico regista madrileno, affermatosi con il thriller Che Dio ci perdoni, poi confermatosi con il politico Il regno e con la serie Antidisturbios, è quello tra i suoi che più si avvicina ai temi del suo ultimo Madre.
Siamo in Galizia, in un piccolissimo paese di poche anime, dove il francese Antoine e la moglie Olga hanno deciso di trascorrere il tempo della maturità della loro vita, comprando un terreno dove coltivare verdure ed ortaggi in modo biologico e risistemare vecchi rustici di pietra, per attirare turisti.
I loro vicini, gli allevatori Xan e Loren, non riescono a sopportare che due francesi si siano trasferiti in quel posto da cui loro che ci sono nati vorrebbero solo scappare.
L’occasione viene da un consorzio che vorrebbe installare delle pale eoliche, comprando i terreni dei nove proprietari.
Antoine assieme ad altri due si è opposto, facendo naufragare i sogni di Xan.
L’ostilità tra di loro non si ferma alle parole e a qualche scherzo di cattivo gusto, ma passa al sabotaggio del raccolto: Antoine cerca di riprendere di nascosto le minacce di Xan e Loren, fino a quando i due fratelli gli tendono un agguato in un terreno isolato e lo fanno sparire.
Olga testardamente rimarrà in Galizia, per cercare le tracce del marito e continuare la loro attività.
Il film di Sorogoyen è questa volta diviso in due: nella prima parte c’è la tensione che monta tipica di un thriller, con il protagonista vessato e umiliato, che cerca di rispondere con le armi dell’intelligenza e del dialogo, senza riuscirci; nella seconda invece il racconto si fa più esplicitamente esistenziale, mostrando la testarda resistenza della moglie, che proprio come la madre del suo film del 2019, non si rassegna, pretende la verità se non la giustizia e decide di perseguire ugualmente il sogno coltivato col marito, nonostante la figlia cerchi di dissuaderla e di portarla via da quel paese maledetto.
In qualche modo l’ambiente e i suoi codici hanno avuto la meglio su di lei, che sembra essersi adattata interamente alla cultura locale, provocando lo sconcerto della figlia, decisa a portarla via da quel piccolo microcosmo crudele.
As Bestas è il racconto lucido di un doppio assedio, il primo lo subisce Antoine da parte dei suoi vicini, l’altro è quello della maledizione della terra, che tiene incatenati i suoi figli.
Il gioco al massacro anche questa volta come in Madre si nutre delle incomprensioni e dei pregiudizi di due culture diverse, non solo per nazionalità: i colti francesi di città, che segnano un idillio in mezzo alla natura e i due fratelli allevatori, che “puzzano di merda” e temono sempre di prendere una fregatura.
Il compromesso sembra impossibile, ma non lo è davvero.
La scrittura che Sorogoyen ha condiviso come al solito con Isabel Peña è quindi più interessante nell’epilogo, che nella costruzione drammatica iniziale, la fotografia livida di Alejandro de Pablo, che collabora con il regista sin dall’esordio di Stockholm, vuole evitare qualsiasi idealizzazione del paesaggio naturale.
Tuttavia il film di Sorogoyen è costruito in modo più schematico dei precedenti. Il cambiamento degli uomini è impossibile.
Invece forse il segreto del film non sta tanto nella parte thriller (quella maschile), quanto in quella finale, segnata da una testarda resistenza femminile, che trova anche il modo di risolvere le questioni in sospeso con la riaffermazione di un matriarcato di fatto, più lucido e tollerante della bestialità degli uomini.
Un matriarcato non meno inquietante e ambiguo.