14 giugno 1998. Sono gli ultimi 42 secondi di gara 6 delle Nba Finals tra Chicago Bulls campioni e Utah Jazz. Chicago conduce 3-2, ma è in difficoltà, in trasferta, con Scottie Pippen infortunato anche se in campo, aggrappata a Michael Jordan.
His Airness segna in penetrazione, ruba palla a Karl Malone, e poi segna il canestro del sorpasso, a 5 secondi dalla fine. Una scena iconica, con la posa tenuta qualche secondo più del necessario, per permettere a tutti di immortalare l’ultimo tiro vincente di una carriera leggendaria.
42 secondi che riassumono una carriera, racchiudono una storia: il dominio, la volontà di successo, le dinamiche di squadra, la negazione della possibilità di soccombere, la plasticità e l’attorialità del momento. Il sogno di ogni sceneggiatore, come vedremo.
E’ il momento finale della serie documentario di Espn (Netflix in Italia) The Last Dance, che riconsegna alla storia una delle squadre più importanti di tutti i tempi e uno sportivo, che è diventato un simbolo globale.
Prodotto da Michael Tollin, diretto da Jason Hehir, suddiviso in dieci episodi della durata di 50 minuti, The Last Dance ripercorre la stagione 97-98 dei Chicago Bulls e, con un gioco di incastri, flashback e immagini d’archivio, l’intera carriera di Michael Jordan, e la parabola della squadra che con lui ha trovato titoli e fama.
Trasmesso a partire dal 20 aprile, a cadenza di due puntate ogni settimana, ha avuto un enorme successo in tutto il mondo, creando una eco mediatica che continua a montare. Le ragioni di questo successo sono varie.
Innanzitutto, la storia produttiva di questa serie è particolare e, probabilmente, irripetibile. La sua genesi data infatti 1997: ad una troupe è stato permesso di seguire, per l’intera stagione, la squadra dei Chicago Bulls, avendo accesso anche a spogliatoi, allenamenti, viaggi, al dietro le quinte, di quella che sarebbe stata l’ultima impresa della squadra, prima di essere smantellata.
Il materiale girato sarebbe poi rimasto nel cassetto sino al 2016, quando Michael Jordan ha infine dato il suo benestare al progetto.
La preparazione della serie ha unito al materiale del 1997/98 nuove interviste a molti protagonisti dell’epoca, e materiale d’archivio, creando un alternarsi di flussi narrativi ed un sovrapporsi di storie che ha contribuito al successo di The Last Dance, rendendola interessante anche per chi non conosce il basket Nba.
In origine, le puntate avrebbero dovuto essere trasmesse nel mese di giugno, in concomitanza con le Nba Finals 2020. Causa Covid, Espn ha deciso di anticiparle, riempiendo in questo modo un vuoto, il bisogno di sport e di narrazione sportiva.
Anche la scelta di trasmettere due puntate a settimana ha contribuito:
The Last Dance è diventato argomento di discussione, per settimane, sedimentando ed aumentando il proprio impatto. Potrebbe essere l’abbandono definitivo del binge watching progettuale, che soprattutto Netflix aveva sposato, e che in tutta onestà sembrava già dare segnali di sofferenza.
Timing, struttura produttiva, materiali inediti, tutti fattori che hanno inciso. Ma, come spesso sottolineiamo su Stanze di Cinema, occorre sempre una Storia, affinché tutto il resto possa impattare.
In questo caso, come evidenziato da uno dei più grandi narratori di Basket, Federico Buffa, la trama era già scritta, ed aveva già tutti gli elementi necessari. Persino il titolo The Last Dance nasce da come l’allenatore Phil Jackson aveva chiamato quella stagione, per motivare i propri giocatori, unendoli contro la proprietà e i suoi piani di ricambio.
L’eroe e la sua parabola, la ricerca del successo, la caduta, il rialzarsi, il successo definitivo, il divenire mito. Il villain, identificato – con alcuni eccessi – nel General Manager Jerry Krause, ancor prima che nelle squadre avversarie, a partire dagli odiati “Bad Boys”, ovvero i Detroit Pistons, i cattivi che provarono in ogni modo a fermare l’ascesa dell’eroe.
I coprotagonisti, elementi essenziali per ogni storia di successo. Tre su tutti: Phil Jackson, l’allenatore guru. Scottie Pippen, il secondo violino della squadra, l’alfiere di MJ. Dennis Rodman, il Matto, con i sui capelli colorati, la sua vita da rockstar e la folle energia che metteva in campo.
L’importanza del supporting-cast e della parabola dell’eroe emergono soprattutto nelle prime puntate, le migliori della serie. Vi è una narrazione più corale, ci si concentra di volta in volta su Pippen, su Rodman, sulle avversità che Jordan ha dovuto affrontare (dagli infortuni agli avversari) per diventare campione Nba.
Gli ultimi episodi, per contro, paiono soffrire dell’aura di invincibilità, di mito, del Michael Jordan maturo. Troppo concentrati sul solo Michael, pagano lo scotto di dover rendere avvincente una sfida per qualcuno che era già assunto ad uno status superiore.
The Last Dance è un prodotto molto curato, di qualità, e, lo ribadiamo, rivolto a tutti, non solo agli appassionati.
E’ anche una novità, difficilmente circoscrivibile negli schemi attuali dei prodotti seriali. E’ un documentario, ma non è solo un documentario. Introduce elementi da fiction, ha una scrittura attenta, una attenzione ai tempi narrativi che si sviluppa per dieci puntate. E’ stato infatti definito un docu-drama, una docu-fiction, e sembrano definizioni plausibili per quello che potrebbe essere il capostitpite di un nuovo format. E’ di questi giorni, infatti, la notizia che Espn ha messo in lavorazione per il 2021 Man in the Arena, 9 puntate, sul grande quarterback Tom Brady.
Il limite di questo nuovo approccio è nel suo scivolare inevitabilmente verso l’agiografia. Non vengono celati i momenti più bui e controversi di Jordan, ma vengono osservati sempre dal punto di vista del protagonista, che gode sempre dell’ultima parola.
Usando un paragone letterario, siamo vicini alle biografie autorizzate.
In The Last Dance questo potrebbe essere ancora più forte, dato il bisogno di controllo, di dominio, che Michael Jordan ha sempre avuto e che emerge anche nel suo approccio alla serie.
E’ proprio la figura del giocatore ad ergersi, monolitica, al termine della visione. Non vi è contrapposizione tra uomo e giocatore, non vi sono fratture o slanci verso l’inaspettato. Tutto è riportato e definito dal suo desiderio di potenza, dalla sua volontà assoluta di primeggiare, contro tutto e tutti.
L’ossessione per la vittoria, non solo sul parquet ma in qualunque situazione e contro chiunque, creandosi continuamente motivazioni, vere o presunte, per tenere viva la fiamma della competizione.
La solitudine del comando, il rapporto con i propri compagni, portati a peso alla vittoria, ma anche tiranneggiati, sfidati fino a distruggere psicologicamente i più deboli.
La ferocia nel cercare la vittoria schiacciante, nel distruggere l’avversario. Ferocia ammantata dalla bellezza delle sue giocate e dei suoi voli, che dopo più di vent’anni hanno confermato ed aggiornato il mito di Air Jordan.
Titolo originale: The Last Dance
Numero degli episodi: 10
Durata media ad episodio: 50 minuti circa
Distribuzione originale: Espn
Distribuzione italiana: Netflix
Consigliato: a chi ama l’epica degli eroi; agli appassionati di vicende di sport e uomini; a chi prova un brivido ascoltando Sirius degli Alan Parson Project
Sconsigliato: agli amanti dello sport gridato nei bar, delle visioni draconiane di buoni e cattivi; a chi si chiede perchè delle persone vadano pagate per giocare con una palla
Visioni parallele: le telecronache delle partite dei Chicago Bulls degli anni novanta , nobilitate dalla narrazione della coppia Buffa-Tranquillo; molti film di Spike Lee, dove il basket è metafora di molto altro, su tutti He Got Game e Fa’ la cosa giusta, oltre ai suoi commercials con MJ.
Un’immagine: le espressioni di Michael Jordan di fronte ai commenti di alcuni avversari dell’epoca. Ci si trova tutto: la ferocia ostentata, la volontà di dominare, la consapevolezza di essere His Airness, il più grande giocatore di tutti i tempi.
Fa’ la cosa giusta è senza dubbio il miglior film di Spike Lee. Anche Blakkklansman spacca: l’hai visto?
Ne abbiamo parlato qui… https://stanzedicinema.com/2018/05/14/cannes-2018-blackkklansman/
Grazie per la risposta! 🙂