Light of My Life

Light of My Life ***

Va tutto bene, è un’avventura d’amore. Solo io e te.

Ha debuttato durante la scorsa Berlinale e arriva nelle sale italiane il 21 novembre Light of My Life, il nuovo film diretto, sceneggiato, interpretato e prodotto – e poi anche basta – da Casey Affleck.

Anno indefinito. Una piaga misteriosa ha colpito la popolazione femminile lasciando la Terra quasi totalmente sguarnita di estrogeni. Come è realistico accada in un pianeta interamente popolato da uomini, va tutto a scatafascio. Case abbandonate, morte, disperazione, grugniti e calci in faccia a migliaia di anni di civilizzazione. Le poche donne immuni alla malattia vengono cacciate come animali esotici, catturate e usate per saziare gli appetiti maschili. Affleck è un padre – “Dad” è l’unico modo in cui lo conosceremo durante tutta la narrazione – che, dopo aver perso la moglie nell’epidemia, si dà alla macchia per proteggere la figlia Anne (Anna Pniowski), “Rag”.

Una storia disperata che non si sfoga mai in tragedia. In un’esistenza all’erta, fatta di parole in codice e fughe improvvise, non c’è tempo per accessi di emotività. Il presente è tutto quello che ha senso di esistere, il passato si insinua negli spazi interstiziali, il futuro prende la forma delle domande insistenti di una bambina e delle risposte inconcludenti di un padre sfiancato, chiacchiere prima della buonanotte a cui dare il peso che si darebbe a un sogno o a una favola.

Fotogramma per fotogramma veniamo incapsulati nell’intimità della loro tenda-utero, una bolla in cui storie fantastiche si intrecciano a domande esistenziali e lasciano implicite meta-riflessioni su dove ci troviamo oggi come società. In uno scenario desolante, lento e ripetitivo, la dolcezza intrisa di praticità delle conversazioni fra padre e figlia – in una biblioteca semiabbandonata, lui che sfoglia manuali di aiuto per neogenitori e lei che ricostruisce i connotati del Mondo Che Fu attraverso i romanzi – conferisce al racconto un ritmo costante e rassicurante.

Recitazione da brividi per i due interpreti principali, una chimica esplosiva che si fregia delle apparizioni di Elizabeth Moss nei panni della madre infetta dal virus e acquisisce ancora più carica proprio sullo sfondo di questo fantasma ingombrante e adorato.

Interessante anche la scelta di mettere in bella mostra un coacervo di stereotipi di mascolinità tossica e dissezionarli uno ad uno, per arrivare a un finale in crescendo in cui la marcia solida del protagonista arriva a un punto di arresto, sopraggiungono il crollo e la caduta e all’improvviso è la figlia a tenere le redini e a mostrare la forza d’animo che finora si era limitata a irradiare passivamente.

Facile l’accostamento a sci-fi postapocalittici come The Road e Children of Men, difficile che una trama a suo modo già sfruttata in passato possa essere riproposta con tanta efficacia e con equilibrio così studiato.

Chapeau a tutti i coinvolti, visione consigliata.

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