Senza lasciare traccia – Leave No Trace **1/2
Sono trascorsi otto anni da Un gelido inverno – Winter’s Bone, il film con il quale Debra Granik aveva consacrato il talento di una giovanissima Jennifer Lawrence, grazie ad un’opera severa e materica, ambientata in quelle Ozark, che cinema e serialità avrebbero poi esplorato molte volte successivamente.
Il successo di quel piccolo film, acclamato in tutto il mondo, dal Sundance al Festival di Torino, dagli Independent Spirit Awards fino ai premi Oscar, ha spinto soprattutto la carriera della sua protagonista, lasciando nell’ombra il talento della Granik.
Senza lasciare traccia – Leave No Trace, il terzo film della regista di Cambridge, ha debuttato nuovamente al Sundance, tappa obbligata per tutto il cinema indie americano, ed è stato presentato alla Quinzaine di Cannes, senza raccogliere tuttavia gli stessi entusiasmi.
Racconto di formazione e alienazione dal mondo, tratto dal romanzo My Abandonement di Peter Rock, adattato dalla stessa Granik con la fidata Anne Rosellini, il film è immerso nella natura lussureggiante del Public Park che sorge fuori Portland, in Oregon.
Qui vivono, in una tenda di fortuna, lontani da ogni comodità cittadina e da ogni interazione sociale, un padre e una figlia: Will, un veterano della Guerra in Iraq e l’adolescente Tom.
Raggiungono la città solo per acquistare generi di prima necessità e per scambiare con altri veterani, in cambio di pochi spiccioli, le pillole che lo stato garantisce a Will, affetto dalla sindrome post-traumatica da stress.
Quando un ragazzo vede per caso Tom, facendo jogging nel bosco, i servizi sociali li localizzano e il loro piccolo microcosmo robinsoniano va in frantumi.
L’idea del rifiuto della civiltà, il mito dell’isolamento e della simbiosi tra uomo e natura hanno attraversato più volte il cinema americano degli ultimi vent’anni, dall’Into the Wild di Sean Penn sino a Captain Fantastic.
Influenzato inevitabilmente dalle teorie di Thoreau di metà Ottocento, il tema ha trovato in questi anni di crisi e di rifiuto del modello di sviluppo capitalistico, una nuova legittimità.
Peraltro negli Stati Uniti comunità autarchiche, trailer park, rifiuto dell’autorità dello Stato sono sempre state realtà diffuse, nonostante la loro marginalità.
La Granik tuttavia non vi si accosta con il furore ideologico o con la furbizia populista, utilizzata da altri in passato, ma attraverso una storia intima, familiare, un racconto semplice, in cui il rapporto simbiotico tra padre e figlia si confronta con l’inevitabile rottura, che l’età e il manifestarsi di desideri e aspirazioni personali portano con sè.
Non solo, ma anche la scelta antisociale di Will sembra più il portato di un profondo trauma personale che non l’ossessione di un fanatico. Il male di vivere del reduce è più forte persino dell’amore di una figlia, resiste persino al calore di una comunità sui generis, che accoglie Will e Tom, senza chiedere nulla.
Il film della Granik non cerca scorciatoie drammatiche, non vuole mai fare la voce grossa, ma preferisce raccontare per progressive approssimazioni, l’inevitabile separazione, che ogni adolescente sperimenta nei confronti dei propri genitori.
Lo fa mettendo in scena una storia-limite, che rende esplicito questo percorso.
Così come in Un gelido inverno, anche questo è un racconto di formazione, con una protagonista adolescente, costretta a confrontarsi con scelte radicali, che la spingeranno lontano dalla propria comfort zone, costringendola a confrontarsi con una realtà diversa da quella in cui ha sempre vissuto ed a costruire la propria identità, anche in opposizione a quella ereditata dalla propria famiglia.
In questo senso il film della Granik è certamente riuscito e convincente e si fa perdonare alcune scelte narrative prevedibili e un impianto complessivo sin troppo esemplare, anche grazie alla sensibilità della sua protagonista, la neozelandese Thomasin McKenzie, che dopo il debutto ne Lo Hobbit sembra lanciata verso una carriera fulminante: nel prossimo anno la vedremo infatti nell’adattamento shakespeariano The King di David Michod, nella commedia ‘hitleriana’ Jojo Rabbit di Taika Waititi, nel nuovo western di Justin Kurtzel sulla gang di Ned Kelly e in Top Gun: Maverick con Tom Cruise.
Senza lasciare traccia uscirà in Italia a novembre per Adler.
[…] | Marco Albanese @ Stanze di Cinema […]
un impianto complessivo sin troppo