Errol Morris entra in sala sulla difensiva e il processo ha inizio. L’accusa al regista è di aver contrbuito alla normalizzazione dello psicotico ultraconservatore sedicente populista ex consigliere di Trump, Steve Bannon, col suo più recente documentario American Dharma.
Non manca di consapevolezza sulle responsabilità che ha sulle spalle: “Mi sono posto il problema in più occasioni”, ammette, “ma la mentalità da struzzo non paga: mettere la testa sotto terra quando l’orizzonte è scuro non paga, bisogna scavare il fondo dell’abisso”. Qualcuno rincara la dose, sottolineando una sorta di servilismo connivente nei confronti del politico trasudante dalla pellicola: “Penso sia un’opportunista che pur di guadagnare potere propaganderebbe qualsiasi ideale”, argomenta Morris “sento fortemente questo repulsione verso la sua ideologia e sono certo traspaia dal mio documentario”.
E ancora: “Mia madre ha cresciuto me e mio fratello da sola, con uno stipendio da insegnante, negli anni Cinquanta”, aggiunge, “ora non le sarebbe possibile farlo perchè il pensiero populista per come è concepito da persone quali Bannon e Trump ruba ai poveri per dare a ricchi, sputa su middle class e minoranze”.
C’è da dire che il tono amicale della conversazione, nel film, è quasi obbligato. Bannon stesso, infatti, in più occasioni quando punzecchiato o spinto verso la polemica, svia spiazzando l’interlocutore: “Ho provato a dirgli che a me e a mio moglie ricordava molto il Lucifero del Paradiso Perduto di Milton”, racconta ridendo, “lui ha assolutamente adorato il paragone!”. E aggiunge: “Riflettiamoci: quante persone ho intervistato nella vita? Migliaia. A quante avrebbe fatto piacere sentirsi paragonare a Satana? Solo a lui”, scherza, “è oggettivamente un personaggio disarmante.
Non aiuta poi la sua posizione il fatto che Bannon racconti di essersi approcciato alla cinematografia proprio dopo aver visto The fog of war, che nel 2006 valse a Morris l’Oscar per il Miglior Documentario. Nella sua filmografia compaiono, fra i vari, The Hope and the Change, Battle for America, Tradition Never Graduates e una decina d’altri titoli che parrebbero ispirati da una visione prolungata di poster motivazionali alternata a una maratona della filmografia di Clint Eastwood. “Quando me l’ha detto sono rimasto orripilato”, commenta, “mi rendo conto di quanto il cinema sia un mezzo potente e di quanto diventi pericoloso nelle mani di chi, come lui, vuole esportare idee di estrema destra in Europa”, risponde, “ma non posso autocensurarmi, le conseguenze in negativo supererebbero i benefici”.
Conclusione tranchant: “Credo sia fondamentale comprendere i meccanismi del pensiero dominante in un determinato contingente storico”, spiega, “forse voi non avete imparato nulla dal mio film, ma io sì”.