Mission: Impossible Fallout ***
Straordinaria macchina cinematografica, repertorio inesausto di azione per l’azione, elegia romantica per l’ultimo vero eroe del grande schermo, testimonianza di una professionalità, che trascende qualsiasi istinto autoriale: tutto questo e molto di più è Mission: Impossible Fallout, sesto capitolo della saga di Ethan Hunt, voluta fortemente da Tom Cruise, attore, produttore, deus ex machina di questo spettacolo senza fine, sin dalla metà degli anni ’90, come veicolo primario per riaffermare periodicamente il suo statuto ontologico di star assoluta e come canovaccio a disposizione dei migliori registi d’azione del momento, per giocare ancora una volta a salvare il mondo.
La serie antologica era cominciata con Brian De Palma: nessuno meglio di lui, per ibridare la vecchia serie tv degli anni ’60, con echi dell’escapismo cinematografico classico, la suspense hitchcockiana e un formalismo visionario, capace di creare i presupposti essenziali per le avventure della fantomatica agenzia governativa segreta IMF. La guerra fredda era finita da poco, l’ordine mondiale era tutto da riscrivere, spie e terroristi avevano un nuovo campo da gioco dove esercitarsi.
Poi era toccato al fascino esotico di John Woo, in finale di carriera: dopo aver rivoluzionato l’action hongkonghese e di riflesso buona parte del cinema americano del decennio, arrivava a Mission: Impossible per rifare se stesso, con una maniera un po’ troppo evidente.
Il capitolo diretto da J.J.Abrams nel 2006 sembrava aver messo una pietra tombale alla serie, prematuramente: la carriera di Cruise era già al suo nadir, M:I III la spingeva, se possibile, ancora più in basso, introducendo tuttavia nella storia alcuni elementi personali e nuovi personaggi, che avrebbero invece fatto la fortuna dei suoi successori, capaci di sfruttarli in modo perfetto, ampliando l’orizzonte di Hunt.
Passano altri cinque anni e arriva la svolta: Brad Bird fa rinascere la serie dalle sue ceneri, abbandonando la numerazione progressiva in favore di un titolo vero, Protocollo Fantasma, spingendo il pedale dell’azione verso un iperrealismo, che si giova sia della computer grafica che della generosità spericolata del suo interprete, stunt fenomenale di se stesso, capace di rimanere appeso al Burji Khalifa ad altezze improponibili, per chiunque altro.
Il talento prodigioso di Bird nell’orchestrare set d’azione parossistica e ipercinetica, riguadagna ad Hunt e soci il favore del pubblico. Jeremy Renner entra nel cast, forse con l’obiettivo di sostituire Cruise, alla lunga. La storia racconterà un finale diverso…
Rogue Nation nel 2015 è la consacrazione della serie: Cruise sceglie per dirigerlo Christopher McQuarrie, suo sceneggiatore di fiducia. Il cast guadagna la formidabile attrice svedese Rebecca Ferguson, partner cinematografica d’eccezione per Cruise e contraltare perfetto per le sue fughe spericolate. E’ un nuovo trionfo: la formula è talmente collaudata e riuscita, che Hunt può permettersi, per una volta, di non uccidere il suo antagonista, l’ex agente Solomon Lane.
Passano appena tre anni e il sesto capitolo arriva a dare un senso a questa lunga estate calda: Fallout sta alla storia di Ethan Hunt, come Skyfall stava a quella di James Bond.
L’agente dell’IMF è costretto a confrontarsi con il suo passato, quello lontano e quello più recente, con le sue debolezze e i suoi punti fallimenti, più volte viene messa in discussione la sua libertà d’azione, e incrinati i motivi, che lo spingono ad accettare sempre le missioni, che gli vengono assegnate.
Tutto comincia a Belfast dove Hunt è nascosto e dove riceve il nastro con il nuovo incarico. Scopre così che ci sono tre testate di plutonio che il Sindacato del crimine fondato dall’ex agente Solomon Lane, sta cercando di acquistare assieme ad un misterioso doppiogiochista, John Larke, grazie all’intermediazione di una donna che si fa chiamare White Widow.
Un primo tentativo di recuperare le testate fallisce, quando Hunt sceglie di non sacrificare il fidato Luther. Erika Sloane della CIA decide così di affiancargli un proprio agente, lo sbrigativo energumeno Scott Walker, pronto ad intervenire e senza scrupoli di sorta, nel caso in cui il nuovo tentativo di intercettare John Larke e White Widow dovesse mettersi male.
Hunt si finge Larke ma scopre che il prezzo delle testate è proprio la liberazione di Solomon Lane. Nel complesso intreccio di relazioni e dissimulazioni, riappare anche Ilsa Faust, l’agente dell’MI6, che ha il compito di provare la sua fedeltà all’agenzia, uccidendo Lane ad ogni costo, prima che venga liberato e possa rivelare informazioni riservate sull’agenzia di cui una volta aveva fatto parte.
La trama, in fondo, è un unico lungo macguffin, che serve a McQuarrie per costruire nuovi fantastici set d’azione per il corpo cinema assoluto di Cruise, impegnato in un tour de force, che sembra far impallidire i cinque episodi precedenti e che comincia nel bagno di una discoteca, per concludersi sulla parete di una montagna del Kashmir, scalata a mani nude.
Non è un mistero che la sceneggiatura con cui sono cominciate le riprese di questo sesto episodio, fosse lunga appena 33 pagine, ovvero l’equivalente di circa trenta minuti sullo schermo. McQuarrie e Cruise volevano la massima libertà di improvvisare, una volta trovate le location adatte, e di modificare il film strada facendo. Il fatto che Cruise si sia rotto un piede saltando dal tetto di un palazzo il primo giorno delle riprese a Londra, ha concesso poi a McQuarrie il tempo per rivedere alcune scelte e modificare alcuni personaggi.
Il perpetuarsi delle fughe, degli inseguimenti, degli inganni e delle maschere, lascia senza parole, ma il film non dimentica di lavorare sul senso della missione e sulla biografia del suo protagonista, recuperando personaggi del passato e mettendolo di fronte alle scelte compiute e ai sacrifici fatti, per salvare il mondo intero e ogni singola vita umana allo stesso tempo.
Mai come questa volta Hunt gioca un ruolo senza ambiguità e molto politico, in cui il bene comune non può prescindere dal valore dato al sacrificio di ciascuno. Non è più tempo di eroi-vigilanti, che devastano le città e se fregano dei ‘danni collaterali’ delle loro azioni.
Fallout ci riconsegna un protagonista ancora spericolato e senza paure, ma profondamente umanista, capace di guardare la morte davanti a sè e di rinviarne continuamente la carica finale e distruttiva.
McQuarrie dirige con grande maestria i set d’azione, senza mai sacrificare la chiarezza e l’intellegibilità degli spazi e delle geografia, al puro movimento. Nel film ci sono corpo a corpo, lanci da aerei militari in mezzo alla tempesta, fughe in moto, in auto, a piedi, su elicotteri e gommoni: una teoria vertiginosa che finisce per sublimarsi in un’astrazione, che stordisce per la sua bellezza.
E che rilancia continuamente la serie di Ethan Hunt verso un nuovo viaggio, una nuova avventura: il film si apre, non a caso, con una copia dell’Odissea di Omero. E il senso di questo gioco infinito, sembra ritrovarsi proprio nelle parole che Umberto Saba ha dedicato allo spirito indomito di Ulisse:
Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
In sala dal 29 agosto 2018.
[…] Marco Albanese @ Stanze di Cinema [Italian] […]