I manifesti elettorali di Ronald Reagan occhieggiano nel seminterrato, il suo spirito ferocemente competitivo attraversa invece le vite perdute dei protagonisti di questa storia: Tonya Harding, la campionessa di pattinaggio artistico, il marito Jeff Gillooly, la madre Lavona, il bodyguard Shawn Eckhardt. Tutti chiamati a ricordare, molti anni dopo, l’incidente che li portò tutti alla ribalta nazionale, quando Nancy Kerrigan, una delle stelle del pattinaggio americano, fu attaccata brutalmente, poco prima dei campionati nazionali del 1994 e delle Olimpiadi di Lillehammer in Norvegia.
Le indagini dell’FBI e il processo che ne seguì, riconobbero le responsabilità dell’entourage della Harding, costringendo la pattinatrice a chiudere la sua carriera sportiva nel fango dei reporter d’assalto e dei talk show.
Il nastro si riavvolge e ricomincia da capo: siamo a Portland, Oregon, nei primi anni ’70 e Tonya è una bambina ossessionata dal pattinaggio. La madre, persuasa che possa emergere, la costringe cinicamente sulla pista di pattinaggio per intere giornate, dall’età di quattro anni, convincendo la sua insegnante, Diane, a prenderla con sè anche prima del tempo.
Gli Harding sono quello che gli americani chiamerebbero white trash. Il padre di Tonya abbandona la famiglia quasi subito, rifiutandosi di pagare gli alimenti. La madre lavora come cameriera e si occupa dei figli, con tutto il cinismo e la disillusione che si può solo immaginare.
Volano botte e coltelli anche in casa. Ma quando Tonya sposa frettolosamente Jeff Gillooly, conosciuto ai bordi della pista di ghiaccio, le cose non vanno molto meglio. Jeff è altrettanto violento e abusivo. La sua influenza nefasta accompagnerà tutta la carriera di Tonya, la prima americana a completare un triplo axel in una prova di pattinaggio.
Il film di Gillespie comincia leggero, con i toni surreali della commedia d’ambiente proletario, ricreando perfettamente lo scontro tra caratteri, che anima tutta la prima parte del film. Attraverso il contrappunto tra le false interviste ai protagonisti, raccolte molti anni dopo, e i ricordi evocati sullo schermo, I, Tonya alterna botte, insulti, battute e scontri, ma anche tenerezze e agonismo, con un crescendo narrativo impeccabile.
Il film è impaginato come un mockumentary, con i personaggi che guardano in macchina rompendo la quarta parete, per raccontare la propria versione dei fatti. Verità e colpevolezza sono illusioni effimere, in un film in cui si viene sempre giudicati per quello che si è, per quello che si rappresenta.
Gillespie, che nel 1993 aveva diretto uno spot proprio con Nancy Kerrigan, e lo sceneggiatore Steven Rogers riescono a restituire con grande precisione psicologica, il piccolo mondo chiuso che circonda Tonya, con le sue miserie e la sua stupidità, capaci di trascinare a fondo la protagonista, vero eroe tragico di questa storia.
Nel mondo snob del pattinaggio artistico, il ciclone Harding si abbatte con furia iconoclasta, con i suoi costumi cuciti da sola, la musica degli ZZ Top e la determinazione sgraziata di chi si sente perennemente giudicata non per quello che fa, ma per quello che rappresenta.
Il conservatorismo dei giudici si accompagna all’affermazione di quei valori all american, che Tonya, con la sua determinazione, e il suo fisico scultoreo, più atletico che aggraziato, sembra voler spazzare via per sempre e che continuano invece a perpetuare un’immaginario idealizzato, del tutto falso, superficiale, razzista e misogino al contempo, della fidanzatina d’america.
La sua battaglia si combatte su molti fronti: sulla pista e con i giudici, almeno quanto in famiglia, con il marito e la madre. Troppi, probabilmente, per una donna sola.
Non si può che parteggiare per Tonya, naturalmente, uno dei personaggi più belli che il cinema americano ci ha regalato in questa stagione.
Margot Robbie, imbruttita e involgarita, è encomiabile per dedizione, ma rimane comunque molto lontana dall’immagine sgradevole e da redneck della vera pattinatrice. Formidabile invece Allison Janney nei panni di una madre megera, che sembra concentrare tutta la sua perfidia, in quelle lunghe sigarette che fuma perennemente. Sono personaggi che sarebbero piaciuti al nostro Mario Monicelli o allo Scola di Brutti, sporchi e cattivi.
Se la costruzione del film è certamente debitrice di molti film del passato, sportivi e non: la parabola della Harding, notissima soprattutto per l’incidente con la Kerrigan del 1994, è invece assai più complessa e articolata, quando l’obiettivo si allarga nel tempo e nello spazio, abbracciando metaforicamente un intero paese, che ha perso la sua innocenza, ossessionato dal successo e illuso da un sogno americano, che non è mai stato così crudele ed effimero, come nella storia di Tonya Harding.
I, Tonya assomiglia un po’ ai costumi sgargianti indossati dalla protagonista, coloratissimi, realizzati con materiali diversi, in modo del tutto artigianale.
Non è più il tempo dell’America di Reagan, ma gli slogan di allora non sono cambiati poi molto. Si ride amaro in I, Tonya: il ritratto di un paese allo sbando, senza più punti di riferimento e coordinate morali, assomiglia molto a quello di oggi. Eppure, nonostante le promesse così simili, come già scriveva Francis Scott Fitzgerald, non esistono secondi atti nella vita degli americani. Neppure in quella di Tonya, che continua a prendere botte e a rialzarsi, con la determinazione di sempre.
Da non perdere.