Split ***
Questa recensione è divisa a metà. La prima parte è priva di spoiler. In ogni caso, se volete evitare qualsiasi informazione o suggestione, prima di vedere il film, vi consigliamo di leggerla solo in un secondo momento.
Maestro dell’inganno, con una carriera ormai ventennale alle sue spalle, Manoj Night Shyamalan ha attraversato tutto lo spettro del cinema americano, dagli esordi indie con la Miramax, alle produzioni per la Disney e e le altre major, passando dal racconto di formazione, all’horror psicologico, dalla fiaba sino al fantasy e alla fantascienza distopica.
Acclamato come uno dei ‘nipotini’ di Hitchcock e Spielberg, all’inizio del nuovo secolo, per la sua abilità di narratore e per la sua capacità di trasformare in oro tutto ciò che produceva, la sua fortuna è molto scemata nel corso degli anni, sino a spingerlo a ricominciare tutto con una serie tv apparentemente perfetta per i suoi incubi, Wayward Pines, e con Jason Blum, il produttore illuminato, che ha fatto la sua fortuna con gli horror a budget zero, Paranormal Activity, La notte del Giudizio, Insidious, ma anche con The Reader e Whiplash, arrivati sino alla Notte degli Oscar.
La loro prima collaborazione, The Visit, era un film piccolo, lineare, un perfetto esempio di quel filone che incrocia il found footage, con la claustrofobia domestica, capace di sfruttare a suo vantaggio i limiti imposti dalla produzione ridotta.
Per Split, invece, Shyamalan ha ripreso un soggetto pensato – e già in parte scritto – molti anni fa, che riporta il suo cinema alle fortunate ossessioni degli esordi.
Kevin Wendell Crumb è un giovane trentenne con un devastante disordine della personalità. Nella sua testa – e nel suo corpo – convivono ventitrè diverse identità, scatenate probabilmente da un precoce abbandono e da un’educazione particolarmente severa.
Assistito da una psicologa, la Dott.ssa Karen Fletcher, pioniera nello studio di questo particolare disordine, convinta che il prevalere delle singole personalità determini significative alterazioni anche fisiche nei suoi pazienti, Kevin alle sedute di analisi si presenta come Barry, gentile e affettato disegnatore di moda, ma nel suo inconscio ci sono forze molto più oscure, che stanno prendendo il controllo.
Il suo alter ego Dennis rapisce tre ragazze, proprio all’inizio del film, e le rinchiude in una cella sotterranea.
Ben presto anche le ragazze capiranno di avere di fronte un rapitore del tutto originale, che assume anche la personalità di una donna, Patricia, e di un bambino di nove anni, Hedwig. Tutte le incarnazioni però attendono il manifestarsi della Bestia: sarà solo un’invenzione delle anime nere, Dennis e Patricia, o è una nuova, ventiquattresima, imprevedibile identità?
Shyamalan riesce quasi a convincerci di voler fare solo un film di exploitation, uno di quelli che affondano le loro radici nei sottogeneri anni ’70.
In realtà il suo film spalanca abissi molto più interessanti e complessi. Come nelle sue opere migliori, il racconto di genere è solo lo strumento per ingannare lo spettatore, spingerlo in una zona confortevole, in cui tutto sembra prevedibile: i tentativi di fuga delle ragazze, la loro separazione, una certa fascinazione per il rapitore, le paure rimosse che ritornano ad affollare i loro incubi, la lotta contro il tempo, l’ingresso in campo di un personaggio, che sembra intuire la verità.
Tutto procede come da manuale ed anche se questa volta il killer psicopatico sembra avere una sua distinta originalità, anche lui si muove nel solco – persino in quello moralista – già tracciato da Il silenzio degli innocenti, Seven e dai loro molti epigoni.
E invece, mano a mano che il film si avvicina alla fine, il quadro diventa più ambiguo e meno limpido.
Split non è il film che ci aveva convinto di essere. Un po’ come il suo protagonista, nasconde una personalità diversa.
Shyamalan non è tanto interessato alla violenza fisica e psicologica del protagonista disturbato, quanto all’orrore che si nasconde nel contesto familiare, protetto dalle istituzioni e dalle apparenze.
Con un ribaltamento che matura nei ricordi di Casey, una delle ragazze rapite, e che sarà determinante per la sua salvezza, il vero film dell’orrore non è quello che abbiamo visto, ma quello che comincia alla fine, quando l’incubo sembra terminato e la polizia riconsegna la ragazza al suo tutore: l’ultimo primo piano, straordinariamente espressivo, di Anya Taylor-Joy è certamente l’immagine più spaventosa di tutto film.
Non è solo Kevin ad essere diviso, ‘split’, ma anche la sua vittima, che trae dagli incubi di un passato che non riesce a superare, la forza per affrontare quelli presenti, rinnovando così, con una intuizione felicissima, il tema archetipico dell’eroe che ritorna, costretto ad una battaglia senza fine.
Ma non è solo sul piano narrativo interno, che Split spiazza le sicurezze dello spettatore e i suoi pregiudizi.
E’ davvero un horror, il film che stiamo vedendo?
Shyamalan è riuscito ad ingannarci anche questa volta, lasciando un unico vero indizio – proprio sotto i nostri occhi – nella locandina, mentre quasi tutto l’apparato paratestuale – trailer, immagini, anticipazioni – ci ha trasmesso, nei mesi precedenti all’uscita in sala, l’idea che ci saremmo trovati di fronte all’ennesima variazione sul tema di Psycho.
Split invece è qualcosa di molto diverso e richiama in maniera più appropriata altri ascendenti cinematografici, da Io ti salverò a Improvvisamente l’estate scorsa. E’ altresì uno straordinario ‘film d’origine’, che spazza via d’un sol colpo vent’anni di cinecomics, esattamente come aveva fatto Unbreakable, con una radicalità, che strappa l’applauso e che mostra il pantano creativo, in cui continuano a sguazzare Marvel e DC, dopo l’abbandono di Nolan e Raimi.
Shyamalan mostra come si possa usare la mitologia del supereroe, senza far ricorso a mostri giganteschi e senza distruzioni di dimensioni catastrofiche, ma con un pugno di personaggi e il conforto di una buona idea.
L’eccezionalità del superuomo, del mutante, non ha qui origini aliene o sovrumane, ma affonda negli abissi della mente, nel perturbante che si manifesta in un’angoscia esistenziale profonda e che accomuna, per una volta, vittima e carnefice.
Particolarmente indovinata la scelta di James McAvoy nei panni istrionici dell’uomo dalle molte facce, così come perfetta è la scelta della protagonista di The Witch, Anya Taylor-Joy, volto angelico di un incubo senza fine.
Split racconta la faticosa costruzione identitaria del suo villain, con la stessa precisione, che Shyamalan aveva dedicato all’eroe di Unbreakable, completando così un dittico, che rimane tra le cose più interessanti e originali, che la cultura dei comics abbia prodotto negli Stati Uniti.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.