French Connection

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French Connection ***

Dopo il suggestivo esperimento d’esordio di Aux yeux de tous, tutto girato attraverso le telecamere di sorveglianza e le webcam della Gare d’Austerlitz, il giovane marsigliese Cedric Jimenez mette in scena un polar da antologia, ambientato negli anni ’70, ai tempi della French, la malavita organizzata che controllava il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Il protagonista è un giudice minorile, Pierre Michel, che viene trasferito alla sezione grand banditisme, per contrastare lo strapotere della criminalità locale, che ha in mano tutti i bar e i locali notturni, oltre al traffico di eroina.

La sua ossessione è Gaetano ‘Tany’ Zampa, il caid di Marsiglia, originario di Napoli, che guida un gruppo ben strutturato, tra cui spicca lo spietato ‘Le Fou’.

La polizia, che lavora a stretto contatto con i colleghi americani della DEA, non è però tutta dalla parte di Michel e la politica è altrettanto ambigua nella sua lotta alla criminalità.

Michel comincia a far cadere nella sua rete i pesci piccoli, mettendo in difficoltà l’organizzazione di Zampa, fino a far credere a qualcuno dei suoi di poter scalzare il padrino.

Il film attraversa mirabilmente dieci anni di inchieste, indagini e scontri. Mette a fuoco perfettamente i due clan e le due famiglie, con una precisione scenografica impeccabile ed uno stile secco, che non mitizza i suoi personaggi, ma ne mostra invece la determinazione e i limiti.

Jimenez mantiene sempre alto il ritmo, anche grazie ad una sceneggiatura che dosa perfettamente i tempi dell’azione, gli incontri cercati o fortuiti tra Michel e Zampa, gli scontri familiari, le faide interne, i tradimenti e le infedeltà.

Ispirandosi evidentemente sia alla tradizione dei Melville, dei Giovanni, dei Sautet dei Clement, ma con un occhio di riguardo all’approccio naturalista di Friedkin ed alla grande rilettura moderna di Mann, Jimenez costruisce un film trascinante pieno di scene memorabili: dall’incontro sulle colline tra Michel e Zampa alla cattura di Le Fou sulle soglie di un bar, dal padrino che significativamente non riconosce più la musica del suo locale e ne chiede conto al dj sino all’assalto finale di Michel e dei suoi intoccabili.

La fotografia di Laurent Tangy cita esplicitamente le dominanti calde delle pellicole anni ’70 ed immerge i protagonisti nel sole caldo e asfissiante del Sud della Francia, giocando perfettamente nel sostituire le ombre noir della notte con i tagli di luce del giorno.

La colonna sonora recupera i grandi classici dell’epoca, da Serge Gainsbourg a Blondie, dai Velvet Undergroud a Dinah Washington e Townes Van Zandt, nel tentativo indubbiamente riuscito di restituire credibilità assoluta alla ricostruzione di quegli anni, a cui non è estraneo neppure il contesto politico, evocato fugacemente, ma con perfetto tempismo, attraverso la televisione.

Jean Dujardin è al primo vero ruolo significativo dopo l’Oscar per The Artist, e se la cava perfettamente, anche grazie ad una faccia che sembra uscita davvero da un polar dell’epoca. Ancor più bravo è Gilles Lellouche nei panni di Tany Zampa, capace di incutere timore senza mai alzare i toni.

Il film vive naturalmente nel continuo duello a distanza tra i due e nella forza con cui guidano i rispettivi clan.

Benoit Magimel dona a Le Fou una fisicità sovreccitata, mentre Céline Sallette è la moglie apprensiva del giudice Michel.

French Connection è grande cinema di genere, senza ripensamenti e rivisitazioni alla Scorsese, senza ironie postmoderne e stilizzazioni inopportune, senza inutile epica alla Sergio Leone.

E’ già un classico, perfetto esempio di quel cinema popolare e intelligente, capace di stare dalla parte giusta senza moralismi e beatificazioni, che noi italiani non siamo più capaci di fare.

Recuperatelo assolutamente.

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