Cinema con vista: San Andreas

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Come sempre, con l’avvicinarsi dell’arsura estiva, Hollywood si diverte a scherzare con la potenza della natura, esorcizzando le proprie paure con blockbuster di ampia fruizione. La storia è una “ruota” ed anche quest’anno gli Americani non hanno lesinato con gli effetti speciali, sperando di sbancare il botteghino con un Brad Peyton reduce dal recente successo di Viaggio al centro della Terra.

I ponti si arrotolano, il mare si ritira e gli edifici si sbriciolano di fronte alla potenza di una computer grafica che sfiora l’epico. Non si può che rimanere ammaliati dall’imponenza distruttiva proposta, trovando una bellezza quasi romantica nel delirio di una specie incapace di difendersi dalla sua stessa casa. Una Terra splendida nel suo essere e maligna nel ricordare che nulla possiamo innanzi ai suoi fenomeni. Vorremmo trovare soluzioni o illuderci di avere tutto sotto controllo, ma è quasi un inutile agitarsi di fronte all’ineluttabile.

In fondo è proprio questa la fortuna del genere catastrofico: la capacità di portare lo spettatore dentro all’orrore, senza mai rischiare la vita in nessun modo. Un gioco vizioso con la morte, nella speranza di allontanarla ancora un po’, divertendosi con le azioni di un Dwayne “The Rock” Johnson meritevole di medaglie ed encomi. E’ l’umana soluzione al disastro, il padre e l’eroe che tutti vorrebbero e per questo impossibile da raggiungere. Però oltre agli eroismi, sarebbe bello vedere anche uno sforzo recitativo, sempre più latente con l’andare degli anni. Nulla è impossibile al capo dei Vigili del Fuoco, finché non si tratta di cambiare una gamma di espressioni che va dal sorridente al corrucciato.

San Andreas è un film che vuole stupire con la forza del comparto visivo, ma si dimentica di curare una sceneggiatura lacunosa ed una compagine di attori incapace di immedesimarsi nel disastro. Il 2012 di Emmerich dovrebbe avere insegnato che non bastano le manifestazioni naturali per etichettare una pellicola “catastrofica”. Servono personaggi capaci di trasformare lo tsunami di turno in un evento interiore degno di un nuovo inizio, come nel The impossible di Bayona.

Il realismo del racconto poteva essere un buono spunto, ma la caduta nella banalità del melò rende vano ogni sforzo, per non parlare di un patriottismo spiccio e facilone che non può essere la soluzione a qualsiasi sciagura. In Salvate il soldato Ryan la retorica poteva essere una scorciatoia, ma nel sacrificare le proprie opere alla patria c’è un desiderio di morire per motivi futili, usando Bertrand Russel per supplire ad una pochezza di idee.

Ancora una volta l’umanità si è salvata, ma per quanto tempo potremo continuare a vedere film privi anche solo di una fugace profondità?

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