1981: Indagine a New York – A most violent year ***1/2
I film di J.C.Chandor raccontano sempre di uomini che perdono il controllo del proprio destino.
I banchieri “padroni dell’universo” di Margin call si trovano a fare i conti con la fine delle loro speculazioni. Il velista in solitario di All is lost, vede affondare la sua barca, per un incidente stupido e senza senso. Il protagonista di A most violent year, Abel, è un giovane imprenditore a capo di una compagnia che distribuisce combustibile: per fare il grande salto, versa la caparra per l’acquisto di un enorme area di stoccaggio e approvvigionamento che gli consentirà di battere i suoi concorrenti, ma ha solo 30 giorni per trovare un milione e mezzo di dollari e completare l’acquisto.
Siamo a New York, nel 1981, Abel ha ereditato la compagnia dal padre di suo moglie, Anna, un gangster con pochi scrupoli con il quale però non vuole avere nulla a che fare.
Quando però le sue autobotti vengono ripetutamente attaccate a mano armata, Abel ed il suo avvocato irlandese si rivolgono al procuratore per avere protezione.
Qui scoprono che Lawrence, un rampante ed accorto District Attorney è sul punto di trascinarli in giudizio per frode.
Nel frattempo il Sindacato dei Teamsters vuole che i suoi autisti siano armati per difendersi dalle rapine, ma Abel cerca di resistere all’escalation di violenza.
La moglie Anna è sempre al suo fianco, si occupa dei bilanci della società e cerca di proteggere la sua famiglia, messa in pericolo persino nelle mura domestiche.
La cultura della violenza avvelena l’aria attorno ad Abel, che inutilmente cerca di resistervi. La moglie compra una pistola, i suoi autisti pure, contro la sua volontà.
E all’ennesimo tentativo di rapina, succede l’irreparabile…
Fotografato in maniera superlativa da Bradford Young, con toni caldi e controluce negli interni borghesi – quasi che i protagonisti uscissero sempre dall’ombra e dal buio – e restituendo invece la materica freddezza dell’inverno newyorkese negli esterni, il film di Chandor è un piccolo capolavoro, che guarda ai grandi classici del cinema degli anni ’70, costruendo la figura di un antieroe solitario, che lotta contro il suo destino e contro la sua stessa famiglia, non lontano dal Michael Corleone di Coppola.
Abel Morales è un uomo di parola, che insegue il sogno americano, cercando di non lasciarsi travolgere da un mondo, che ha ormai metabolizzato perfettamente dentro di sè l’etica criminale.
Non è un caso se, quando Abel richiede di incontrare i capi delle aziende concorrenti, la riunione assomigli più ad un incontro tra capifamiglia mafiosi, che ad un meeting di affari.
La guerra non si combatte sui prezzi e sull’efficienza dei servizi, ma con l’intimidazione fisica, la rapina a mano armata.
Ed allora sono i ritmi del thriller a prevalere: quando finalmente Abel perde la calma, ne nasce un inseguimento memorabile prima in auto e poi a piedi, sulle tracce di uno dei camion rubati, seguendolo attraverso ponti e strade e poi nei tunnel in disuso della metropolitana.
Jessica Chastain è la moglie Anna, che condivide la scalata di Abel, senza dimenticare mai il peso dell’eredità familiare e mafiosa: vestiti sgargianti, unghie lunghissime, modi sbrigativi, armi e contabilità creativa. Non avrebbe sfigurato in Quei bravi ragazzi.
Così come in Margin Call, Chandor sembra voler sottolineare tutta la contiguità che esiste tra grande impresa e criminalità, almeno nei modi per conquistare e gestire il potere.
L’istinto di sopravvivenza e la lotta hobbesiana per il successo sono due facce della stessa medaglia e nessuno sembra escludere la ferocia più spietata, nel gestire i propri affari.
Qui la metafora si fa ancor più esplicita, ovviamente, perchè Chandor non ritrae gli uffici asettici e trasparenti di una banca del terzo millennio, ma le strade di Brooklyn degli anni ’80.
Anche se Oscar Isaac – vestito impeccabilmente e con un cappotto cammello da urlo – nei panni di Abel si ispira inevitabilmente ai modelli di quegli anni, unendo la determinazione ed il carisma di Pacino, alla recitazione minimalista ed ai modi misurati di De Niro, A most violent year non è cinema di genere e non concede nulla al romanticismo: il suo stile asciutto, realista, ricco di sfumature morali, assomiglia forse ai capolavori di Sidney Lumet, capaci di raccontare New York ed i suoi piccoli e grandi traffici, con amarezza e disincanto.
Il sogno americano è corrotto sino alla radice ed il sistema finisce per travolgere anche chi cerca la strada giusta. Alla fine il petrolio nero ed il sangue rosso finiranno per confondersi nel bianco della neve.
La giustizia si piega all’interesse, i soldi comprano il silenzio ed il potere.
Da non perdere.
[…] Marco Albanese @ Stanze di Cinema [Italian] […]