Departures *
Spiace parlare male di un film che gli amici ti hanno consigliato e che evidentemente ha una sua efficacia emozionale, poichè nella sala in cui l’ho visto, alla fine, sgorgavano fiumi di lacrime facili.
Eppure di fronte ad un film com Departures, ignobile Premio Oscar al miglior film straniero nel 2009 – nell’anno di Gomorra, La classe e Walzer con Bashir – non si può essere teneri.
Il film di Yôjirô Takita è di una mediocrità imbarazzante, è consolatorio e profondamente ricattatorio, usa i più biechi mezzi drammatici, per indurre sentimentalismi d’accatto, in un pubblico fin troppo disposto a soffrire con il simpatico protagonista, Daigo.
Il quale, violoncellista in una grande orchestra di Tokyo, quando questa chiude per mancanza di fondi, rinuncia immediatamente ad una carriera a lungo coltivata, per ritornare al suo paesello, vendendo il prezioso strumento.
E’ evidente: un violoncellista da concerto, che ha cominciato a suonare dall’età di 5 anni, che si è laureato al conservatorio, che ha studiato e suonato quotidianamente per 30 anni, improvvisamente lascia tutto.
Non solo, ma ritorna nella cittadina d’infanzia, senza alcuna prospettiva di vita. Non ha un lavoro e la moglie è forse costretta a lasciare il suo.
E già le premesse narrative, come potete notare, sono falsissime e prive di qualsiasi logica.
Il film prosegue con Daigo che, in mezza giornata, trova lavoro presso un tanatoesteta: deve occuparsi di ricomporre i cadaveri e prepararli all’ultimo viaggio, secondo una tradizione culturale che i parenti non vogliono più curare da sè e preferiscono affidare a dei professionisti.
Il tema della morte, l’idea di ridare serenità ai corpi ormai privi di vita, agli occhi di parenti che piangono la dipartita del caro estinto e magari si rammaricano e litigano su presunte colpe, è l’unico momento felice, di un film troppo furbo!
Daigo accetta il lavoro, peraltro molto redditizio e poco impegnativo, senza dire nulla alla moglie, la quale, quando lo scopre, abbandona il protagonista.
Per quale motivo un lavoro così asettico e dignitoso, che fa parte della tradizione culturale di un popolo, debba essere visto così male, non solo dalla moglie, ma anche dagli amici, che tolgono il salutoa Daigo, è cosa che il film non riesce a dirci.
Salvo naturalmente provocare il riscatto di Daigo, quando all’amico d’infanzia morirà la madre e quando la moglie, incinta, lo accompagnerà a compiere il suo servizio, comprendendo infine l’importanza del lavoro del marito e la sua dedizione.
A tutto questo, che è già sufficientemente scontato da riempire un paio di telenovele, si aggiunge la storia familiare di Daigo, abbandonato dal padre in tenera età.
Ovviamente nel finale, Daigo sarà chiamato a ricomporre proprio la salma del genitore, in un tripudio di flashback, ricordi d’infanzia e lacrime di coccodrillo.
Non c’è un’ombra di verità in due ore e dieci minuti di film. I cadaveri sono tutti perfetti anche prima dell’arrivo di Daigo. Tutti belli, relativamente giovani, senza danni. Guardando Departures, sembra che non ci siano tumori, malattie, droga, morti cruente: si muore senza sofferenza in Giappone!
L’unico cadavere in decomposizione è utilizzato, proprio all’inizio, dal regista Takita, per una banale gag con Daigo che vomita dappertutto: e naturalmente non ne vediamo mai neppure un centimentro…
Tutto finto, tutto posticcio, tutto scritto malamente e girato da una mano infelice e che si mimetizza, lasciando spazio alle implausibili svolte di sceneggiatura ed ai colpi di scena telefonatissimi: nel finale c’è poi un montaggio piano su piano sul volto piangente della moglie di Daigo, che è veramente aberrante.
Ma il regista evidentemente confidava nella momentanea distrazione del pubblico, impegnato ad asciugarsi le lacrime, più che a guardare il film.
Per non parlare del fatto che ogni qual volta Daigo prende il violoncello e suona, la musica di un inesistente pianoforte si affianca alle note, che dovrebbero provenire dal suo strumento, creando un corto circuito tra musica diegetica ex extradiegetica del tutto privo di senso.
Il massimo lo si raggiunge con Daigo, abbandonato dalla moglie, che suona sulle rive di un fiume, in un tripudio orchestrale, con i ciliegi in fiore e le montagne innevate alle sue spalle: immagini così kitch non le vedevo da molto tempo. Soprattutto in un film premiato con l’Oscar!
Quanto agli interpreti: Masahiro Motoki nei panni di Daigo continua a fare smorfie da cartoon per tutto il film, la moglie è del tutto anonima. L’unico attore che non sembra uscito da un gruppo parrocchiale è Tsutomu Yamazaki, che interpreta il capo di Daigo.
Una catastofe totale.
Che abbaglio collettivo!
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