Le title sequence delle serie tv possono essere simpatiche, intriganti, intelligenti e in rari casi perfino piccole opere d’arte. I titoli di testa di Bad Sisters, frutto del lavoro creativo del londinese Peter Anderson Studio appartengono a quest’ultima categoria. Nel giro di ottanta secondi, che vorremmo non finissero mai, il bizzarro meccanismo, battezzato The Prick Trap e ispirato alle macchine inventate da Rube Goldberg, dispone in sequenza elementi e oggetti di scena strappati alle vite delle protagoniste, le cinque diaboliche sorelle Garvey, mettendo a contrasto la felicità dei tempi andati con la tristezza attuale, condizione presente di una di loro e quindi, in nome del fortissimo vincolo di famiglia, di tutte. Il mostro colpevole di aver sottratto gioia e forza vitale alla povera Grace ha un nome, John Paul, un cognome, Williams, e appunto un nomignolo, The Prick, tradotto nella versione italiana con… “minchione” (siamo sicuri che certe variabili regionali darebbero un certo colore al vezzeggiativo). Una condanna, una situazione terribile eppure non irrimediabile. Non con le buone, forse più con le cattive. La sequenza si arricchisce infatti di ardimentose trovate, certamente crudeli e finalizzate a un solo scopo: l’assassinio.
Di cosa tratta Bad Sisters? Pazientate un momento. C’è un altro aspetto, sempre legato alla title sequence, meritevole di attenzione. La canzone che accompagna i titoli è un capolavoro di Leonard Cohen, Who by Fire, cantata per l’occasione da PJ Harvey, un binomio esplosivo per una cover non banale. In un’intervista concessa a NME Sharon Horgan, l’attrice che interpreta Eva Garvey, nonchè co-sceneggiatrice della serie, ha rivelato di aver contattato la cantautrice del Dorset durante le riprese, mentre quest’ultima lavorava al nuovo album (che dovrebbe vedere la luce l’estate prossima) con il compositore Tim Phillips.
La morte e la vendetta, “sono tematiche con cui [PJ] ha sempre mostrato una certa affinità”, ha dichiarato Horgan, aggiungendo che “le differenti cause di morte elencate nel testo originale della canzone” diventano comprensibili nel corso della visione dei dieci episodi. PJ Harvey si è mostrata talmente entusiasta del progetto da voler contribuire con altre dodici tracce, quasi tutte strumentali o al massimo arricchite da esercizi vocali un po’ folli. “Polly mi ha inviato una cartella di canzoni, da lei chiamate ‘Orphans’ (Orfani)”, pezzi che non hanno trovato spazio nei dischi fin qui pubblicati. Occorre aggiungere che tutta la colonna sonora di Bad Sisters è di alto livello, con scelte azzeccate e perfettamente amalgamate alle scene.
Ambientata a Dublino e dintorni, la serie si apre con un funerale. John Paul, il marito di Grace, è deceduto. Solo nel decimo episodio sapremo come e per mano di chi. Percepiamo però una certa soddisfazione. Le quattro sorelle Garvey, togliamo dal mazzo, almeno per ora, la vedova, vedono realizzarsi un sogno a lungo cullato. Le hanno provate davvero tutte e finalmente… ma perché tanto astio verso un padre di famiglia?
All’inizio non è evidente, ma più i legami interpersonali si chiariscono, più il profilo del caro estinto, risulta moralmente ripugnante. John Paul (Claes Bang, l’attore protagonista di The Square di Ruben Östlund) è un condensato di antipatia elevato al quadrato, antipatia nel senso profondo e intimo della parola. JP, alias The Prick, odia il prossimo suo, cioè tutti, parenti, vicini di casa, colleghi, facendo ricorso, ad un ampio armamentario di volgarità assortite… È oltraggioso.
Ad Eva, la sorella maggiore, “colpevole” di aver regalato il primo reggiseno a sua figlia Blanaid, dice “se vuoi sessualizzare una bambina fattene una tua” (Eva è una single attempata con seri problemi di fertilità). È omofobo. Non esita a chiamare Bibi, sposata con una donna e madre adottiva di un ragazzino di colore, “ciclope” (Bibi porta la benda su un occhio). È razzista. I fidanzati di Becka, la sorella giovane, la più alternativa del gruppo, non sono abbastanza “irlandesi” per lui e vengono regolarmente sbeffeggiati a ogni cena di famiglia. È tremendamente ipocrita. “Deplorevole, abietta, disgustosa” sono gli epiteti riservati a Ursula, scoperta in flagranza di… tradimento appena consumato. Peccato che lui serbi segreti ben più deplorevoli e disgustosi. E poi, c’è Grace, la mammina.
Bei tempi, quando le cinque sorelle Garvey, unite dal lutto della morte dei genitori in un incidente stradale, passavano le giornate a nuotare, felici e spensierate, nel mare antistante la scogliera di Forty Foot. Grace, “la graziosa Grace” (interpretata dalla bravissima Anne-Marie Duff, attrice che ha acquisito notorietà a partire da Magdalene del 2002), è un uccellino strappato al nido. Grace, umiliata quotidianamente da John Paul, narcisista patologico ed egoista egocentrico all’ennesima potenza, è la rappresentazione plastica della donna vittima di molestie psicologiche domestiche. Un esempio? Dopo la dipartita di Oscar, il cagnolino, avvelenato per errore della Garvey connection (l’ennesimo fallimento delle quattro maldestre sorelle, ci torneremo in seguito), Blanaid Williams riceve in dono un gattino. La riparazione non è gradita a JP. “Un sacco di pulci”, sentenzia l’amorevole maritino, che volentieri lo scalcia spedendolo sotto le ruote di un’auto. L’orco ordisce una simulazione: perché non far credere a Grace di essere colpevole dell’investimento della povera bestiola davanti al giardino di casa? Grace deve sentirsi in colpa, costantemente. E ancora, Grace si assume la colpa del tentativo di suicidio di “The Prick”, che tale, in effetti, non è. Nell’ultimo episodio JP rivela, fuori da ogni ipocrisia, ciò che pensa di lei: sei solo un’ombra, quando spengo la luce non esisti più.
Nella serie il nastro del tempo scorre avanti e indietro, consentendoci di apprezzare la perfidia dispensata con meticolosità quasi scientifica da JP, quando era ancora vivo, vegeto e a torto si credeva onnipotente, verso le sorelle Garvey, il vicinato, i colleghi, l’intera cerchia di conoscenze. Il prossimo di JP non è quello del Vangelo di Matteo, bensì, a priori, sempre e comunque, un ostacolo, un nemico, un’erbaccia infestante. Bad Sisters è quindi una crime story in cui il morto è in bella vista, esposto fin dalla sequenza di apertura nella sua bara e il nome dell’assassino latita. Ognuna delle Garvey ha, anzi aveva, un conto in sospeso con lui e buone, ottime, ragioni per agire, ma lo stesso si potrebbe dire del mite dirimpettaio Roger Muldoon, inghiottito da una storiaccia inventata di sana pianta da JP, e di Ben, l’amante di Ursula, poco disposto a tollerare il ricatto di “The Prick”. Ad ogni modo, sono le sorelle il motore di Bad Sisters, una serie massimamente centrata sui personaggi, sulle relazioni e sul piacere del conflitto.
Bad Sisters è un crescendo e si svela una serie di puro genere revenge. L’ipotesi di far fuori “The Prick” all’inizio sembra un’idea buttata lì, una boutade senza peso specifico tra una bottiglia di vino e l’altra. Eppure… Grace, come detto, vive in catene. Eva è affondata da JP, che le soffia l’ambita promozione e poi la fa licenziare. Ursula (Eva Birthistle, la protagonista di Un bacio appassionato di Ken Loach), madre di famiglia sentimentalmente fragile, è sotto scacco, complice una foto inviata al numero sbagliato. Bibi (Sarah Greene, già Hecate Poole in Penny Dreadful e Lorraine in Normal People) deve la sua mezza disabilità alla guida imprudente del cognato. Becka (Eve Hewson, vista nella serie The Knick, nel Ponte delle spie di Spielberg e nota, anche, per essere la figlia di Bono degli U2) ha visto spegnersi i suoi sogni professionali a causa del solito JP, che, geloso del suo rapporto privilegiato con la madre Minna, le ha negato un finanziamento. E quindi… via con le danze (macabre). Bad Sisters è una girandola di tentativi di omicidio. Falliti. Né il fuoco, né l’acqua, né il freddo estremo, né i pallini congelati ad hoc per il torneo di soft air, né tantomeno il fenobarbital, il roipnol o il veleno nella fettina di carne, per la precisione fegato, poterono nulla contro JP. E allora, com’è morto, veramente, “The Prick”? Incidente o omicidio?
È la medesima domanda che si pongono due periti assicurativi, Thomas e Matthew Claffin dell’agenzia Claffin & Sons, rispettivamente gli attori Brian Gleeson (ha recitato in Phantom Thread di P. T. Anderson e in Mother! di D. Aronofsky, per citarne un paio), e Daryl McCormack (Isiah Jesus in Peaky Blinders). Il risarcimento dell’assicurazione rischierebbe di mandarli in bancarotta, considerato il pessimo stato delle finanze della Claffin & Sons dopo la morte del padre, libertino e truffatore. Thomas, che sta per diventare padre a sua volta, si improvvisa investigatore, va alla ricerca di prove, interroga le testimoni, ovvero le possibili colpevoli (“Nessuno sceglie il proprio cognato”, gli dice Eva), cerca perfino di corrompere un detective per riesumare il corpo di JP, con tanto di raggiro ai danni dell’innocente Grace, ma deve fronteggiare un imprevisto. Il fratellastro Matthew inizia a frequentare una delle sorelle Garvey, Becka, l’anello debole del gruppo.
La serie, oltre a relegare ai margini le bellissime ambientazioni naturali (falesie, spiagge, strade costiere), non sfrutta fino in fondo le potenzialità dei personaggi e delle relazioni. Non dimentichiamo che l’Irlanda è una nazione interessata da recenti cambiamenti di grande impatto sociale. Il racconto, nonostante le premesse, è impolitico. Il quadro di sfondo, benchè accennato, resta nell’ombra. Omofobia e razzismo si rivelano elementi strumentali, tratti umani, o meglio disumani, sacrificati nella creazione del personaggio maschile. Il sarcasmo, di contro, non riesce a diventare sulfureo come ci si aspetterebbe. Il tratto caricaturale soffoca la sincerità. L’amoralità dell’azione reiterata (in fondo cercare di uccidere un uomo, per quanto orrido e spregevole, è un reato) non si trasforma nella bellezza di un gesto assurdo e liberatorio, né aspira ad elevarsi a universale rivendicazione dei diritti della donna. Bad Sisters resta nei confini del privato e le intemperanze di JP, che pure attingono a un’antropologia diffusa, facilmente connotabile in senso ideologico, scadono ad epifenomeni di una personalità distorta.
La serie è divertente, argutamente congegnata sul piano drammatico e negli incastri comici (dark comedy, s’intende). Non è difficile rintracciare alcune ricorrenze, ad esempio l’elemento foto, l’immagine intesa come sfida alla memoria, arma di ricatto reale o anche solo potenziale, e ancora il tema della fertilità, tabù impossibile da nascondere o vergogna da tacere. Tuttavia, nel complesso, Bad Sisters si mostra sterile e un po’ vuota, riducendosi al meccanismo descritto in apertura, una stringa di nessi causali e di tragici errori. Finchè l’avvenimento primario, il regicidio del despota JP, nel decimo episodio, è svelato allo spettatore nei dettagli. Il noto principio dell’eterogenesi dei fini, in definitiva, è confermato.
Morte, discendenza, significato della famiglia e, non ultimo, desiderio di libertà sono gli assi cardinali di Bad Sisters. “Il corpo con cui essere a tuo agio è il tuo”, dice una modella a Grace durante una lezione di arte. Nella serie il sentimento costante è, viceversa, il disagio, un malessere epidermico e sordo, quello della sventurata mammina, e per contagio, il nostro. Impossibile non avvertire un’istintiva solidarietà nei confronti di Grace e delle vendicatrici disperate. Nel bene e nel male, Bad Sisters è tutta qui.
Titolo originale: Bad Sisters
Numero di episodi: 10
Durata: 50 – 55 minuti l’uno
Distribuzione: Apple TV+
Uscita: 19 agosto – 14 ottobre 2022
Genere: Dark Comedy, Thriller
Consigliato a chi: porta sempre con sé una scatola di cerotti, ama giocare a bocce in riva al mare, passa il weekend a guardare documentari sui crimini della Storia.
Sconsigliato a chi: ha difficoltà a riconoscere le canzoni cantate a labbra strette, detesta il tanfo dei cannolicchi, ha una statuetta appuntita sul cruscotto.
Visioni e letture parallele:
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Le cose cambiano… 1001 modi di sposarsi in Europa. Il matrimonio gay in Irlanda. Disponibile su Arte.
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Ambientata nell’Irlanda conservatrice degli Anni Sessanta, la trilogia di un’autrice ormai di culto: Edna O’Brien, Ragazze di campagna, Einaudi, 2022
Un capo di abbigliamento: i pantaloni fucsia.
Un nome per una barca: True Grace.