Il nuovo film dell’islandese Baltasar Kormákur (2 guns, Everest), impegnato nell’ultimo lustro soprattutto nella produzione delle tre stagioni della serie Trapped, è un nuovo racconto di sopravvivenza alle avversità.
Ambientato nel parco del Mopani in Sud Africa, racconta la storia del Dott. Nate Samuels che, dopo la morte della moglie, originaria proprio della riserva, porta le figlie adolescenti Mere e Norah, a conoscere la luce e la terra delle loro origini.
Mere non ha ancora perdonato il padre per aver abbandonato la madre proprio prima della sua malattia e continua a mantenere un atteggiamento ribelle.
In Sud Africa vengono accolti dallo “zio” Martin, un biologo che lavora nel parco e li accompagna in un safari che si conclude nel territorio dei leoni.
Quando la loro jeep si avvicina al villaggio degli Tsonga nessuno viene ad accoglierli. Dopo una breve perlustrazione, Martin e Nate si accorgono che un leone feroce ha fatto strage di donne e bambini.
La bestia si aggira ancora in quello che considera ormai il suo territorio e non basterà rimanere chiusi nella jeep per salvarsi.
Con la macchina in panne e senza possibilità di comunicazioni con l’esterno, i quattro vengono raggiunti nella notte dai cacciatori di frodo, ma non solo da loro…
Beast è un film che sembra avere uno scheletro davvero esile. I rapporti tra i personaggi sono tutti giocati su cliché usati e abusati: il ritorno alle origini, il padre assente, l’adolescenza come passaggio verso l’età adulta, la scoperta di una natura selvaggia non addomesticabile, la volontà predatoria dell’uomo bianco in terra d’africa.
Il film di Kormákur li usa tutti, racchiusi nel più classico dei viaggi di formazione.
Tuttavia non sembra tanto il racconto in sè ad interessare il suo regista, quanto piuttosto la possibilità di utilizzare le tecnologie digitali per inscenare una serie di formidabili duelli tra i personaggi della storia e il leone famelico, che richiamano immediatamente il famigerato duello tra l’orso e Hugh Glass in Revenant.
Tutto il film è costruito su una serie di formidabili scontri tra uomini e bestie, prima attorno alla jeep su cui viaggiano i protagonisti, quindi nella casa abbandonata usata dai cacciatori, infine in mezzo alla savana.
Il film sta tutto nell’eccezionalità di questi momenti inediti, a cui seguono lunghe pause in cui la storia esilissima cerca un modo per proseguire, in attesa di un novo attacco.
La dimensione familiare è ideologicamente trita, il racconto della grande madre Africa è stereotipato e lo sguardo con cui viene mostrata è banalmente turistico, se non decisamente neocoloniale.
Il film è uscito in contemporanea a Prey negli Stati Uniti e la distanza tra i due non potrebbe essere più significativa.
Tanto astuto, intelligente e rispettoso della dimensione paesaggistica è il film di Trachtenberg, tanto semplicistico e implausibile è questo di Kormákur.