Love Life

Love Life **1/2

Il settimo film del quarantenne giapponese Kôji Fukada debutta nel concorso principale di Venezia 79 e sarà il suo primo distribuito nel nostro paese, grazie a Teodora. Love Life è un melò che vorrebbe richiamare influenze rohmeriane, ma anche richiamare tutta la tradizione minimalista che da Ozu in poi ha attraversato il cinema giapponese nel corso degli anni.

Racconta la morte improvvisa del piccolo Keita, un bambino di sei anni, campione del gioco chiamato Othello, per un banale incidente domestico.

La madre Taeko, che si è appena risposata con Jiro Osawa ne è ovviamente devastata. I genitori di Jiro, che osteggiavano il matrimonio con una donna che non esitano a chiamare uno “scarto”, aggiungono nuove pene al dramma familiare.

Nel frattempo il padre di Keita, un coreano sordomuto, assente da molti anni, si rifà vivo per i funerali: la moglie che aveva conosciuto Jiro proprio ai servizi sociali, cercando i rintracciarlo, finisce per riannodare i fili di un rapporto interrotto bruscamente.

Lo stesso accade a Jiro con Yamazaki, la donna che aveva abbandonato quasi sull’altare, per sposare Taeko, pochi mesi prima.

La ronde sentimentale ha forzature difficilmente comprensibili, ma forse giustificabi quando si piegano all’elaborazione di un lutto così lacerante. Il sopracciglio si solleva più volte nel dubbio durante le due ore di Love Life, che vorrebbe essere impressionista nel riuscire a catturare sentimenti e turbamenti, ma che suona invece piuttosto implausibile nelle sue svolte amorose.

L’ultimo atto con la protagonista che insegue l’ex marito bugiardo e senza tetto fino in Corea, per un funerale che si rivela essere un matrimonio, è davvero paradigmatico di un film che vorrebbe avere una leggerezza che non sempre funziona.

Ancor più discutibile e manipolatoria la scelta di mettere in scena la morte di un bambino, come un mero espediente drammatico che muove l’azione: un aggancio ricattatorio che pone più di qualche interrogativo.

Come spesso accade nei film giapponesi, l’idea del kintsugi – riparare quello che si è rotto per donare nuovo valore a quello che esisteva prima – è una tentazione sempre molto presente. Tuttavia, in questo caso non completamente riuscita perchè la Love Life di Jiro e Taeko non sembra alla fine acquistare valore, ma ricomporsi forse solo provvisoriamente e non grazie a un nuovo legame forgiato nell’oro, bensì in forza delle rispettive debolezze.

Nell’accettazione un po’ rassegnata della fatica dello stare assieme, resta soprattutto quella passeggiata finale che attraverso una panoramica dall’alto accompagna i personaggi dall’appartamento al piccolo giardino di fronte e poi li perde in un campo lungo che si ferma sul limitare della vita.

È un momento di cinema semplice e purissimo, che riscatta le molte debolezze di Love Life: un film più ambizioso di quanto appaia, che rischia invece di passare inosservato.

Eppure il suo orizzonte non è mai così pacificato come potrebbe apparire e le cose che ci sussurra hanno bisogno del tempo della riflessione, per emergere.

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