Monica

Monica *1/2

Monica, il terzo film di Pallaoro, trentino trasferito a Los Angeles da molti anni, continua ad avere i pochi pregi e i molti difetti del precedente, Hannah.

Anche questa volta, come indica subito il titolo e l’adozione di un formato strettissimo dello schermo, il suo film è lo studio di un personaggio. Una donna.

Allora era la moglie di un uomo improvvisamente arrestato e trattenuto per crimini irriferibili, questa volta è una figlia, che si ricongiunge alla propria famiglia, quando la madre è vicina alla morte.

Su una spider rossa, targata California, Monica, viaggia verso la grande casa familiare, che sta andando in rovina. Le telefonate con Jimmy, il suo compagno, danno il senso di una rottura definitiva. Gli incontri con il fratello Paul, la moglie Lana e i due nipoti sono sempre avvolti dall’imbarazzo. Segno di un passato che non è mai stato davvero compreso o affrontato.

La madre invece, che ha un tumore al cervello in stadio terminale, neppure la riconosce.

Il film è fatto di nulla. Qualche chat erotica, qualche appuntamento mancato, i problemi sempre più evidenti della madre, la recita del nipote, chiamato a cantare e suonare l’inno nazionale.

Anche questa volta Pallaoro è testimone di eventi minimi, reazioni impercettibili, lascia tutto in sospeso, gioca sul non detto e sul non visto, usa l’ellissi come strumento unico narrativo.

Non gli interessano i motivi, le parole, le frasi smozzicate, ma preferisce stare addosso alla sua attrice, Trace Lysette, che tuttavia non ha davvero nulla della grandezza enigmatica di Charlotte Rampling e ci regala una delle interpretazioni più catatoniche e inermi di questa Mostra.

Nonostante il regista cerchi di soffermarsi sui suoi gesti minimi, sull’espressività, sullo sguardo, tutto quello che ottiene questa volta è imbarazzo.

Pallaoro, aiutato dal direttore della fotografia Katelin Arizmendi, lo fa con un’economia di mezzi invidiabile. Ma non bastano il rigore della messa in scena a salvare un film che vorrebbe raccontare il peso del passato e il desiderio del cambiamento, ma che finisce per non dire nulla, neppure sul travaglio identitario della protagonista, mai davvero compreso e accettato dalla sua fsmiglia.

Difficile entrare in sintonia con una protagonista costantemente corrucciata e assente, incapace di esprimere sentimenti, passioni, emozioni. Così come avvenuto con Hannah dopo quasi due ore di silenzi, viaggi in auto e sospiri, onestamente, accogliamo anche il pessimo finale, con un certo sollievo.

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