Ad aprire la 79ma Mostra del Cinema di Venezia è questo impossibile adattamento del romanzo di Don De Lillo Rumore bianco che nel 1985 mescolava sapientemente la paranoia cospirazionista con la paura della morte, l’ossessione per la malattia e la cura con quella per il consumismo degli enormi supermercati, portali verso l’illusione della felicità.
Lo stile personalissimo di De Lillo riusciva a tenere assieme miracolosamente gli studi hitleriani che occupano la vita del protagonista, un professore universitario di nome Jake Gladney con il mito americano per eccellenza, Elvis Presley, oggetto del lavoro di un altro collega, Murray, che gli chiede aiuto in una singolare lezione parallela.
Il film si apre proprio con una lezione del prof. Murray sugli incidenti stradali riprodotti nel cinema statunitense in modo sempre più catastrofico e spettacolare, come manifestazione assoluta e paradossale dell’ottimismo della civiltà americana impegnata a rinnovare se stessa in questo crogiolo di esplosioni, lamiere, strade e velocità.
La prima parte del film è il racconto della routine familiare di Jack, della moglie Babette e dei loro quattro figli, avuti quasi tutti da relazioni precedenti.
Ciascuno dei ragazzi ha una sua personalità ossessiva e maniacale. Jack intanto, che tiene una cattedra di studi hitleriani, va segretamente a lezione di tedesco, perchè incredibilmente non lo parla per niente. Tra incubi notturni, supermercati coloratissimi e richieste strambe dei colleghi, il professore cerca di schivare ogni ostacolo.
Le pillole di una misteriosa sostanza chiamata Dylar, che Babette prende di nascosto, finiscono per attirare la curiosità della figlia Denise e del protagonista, ma avranno un ruolo centrale solo nell’epilogo.
Il secondo atto del film si apre con uno spaventoso incidente ferroviario in cui un cargo si incendia liberando una misteriosa sostanza tossica in una enorme nube nera che minaccia la piccola città di Blackmith dove i Gladney vivono. Il paese viene evacuato.
Dopo 9 giorni lontano da casa, passati in tende e campi di fortuna, i Gladney ritornano a casa, ma Jack, che si è inavvertitamente esposto al contagio fermandosi ad una pompa di benzina, ora è ossessionato dalla morte e pensa che le misteriose pillole della moglie siano la soluzione.
Girato interamente in un Ohio del tutto anonimo e ordinario, il film di Baumbach è un tentativo maldestro e irrisolto di un regista noto soprattutto per i suoi film minimalisti e i suoi studi di caratteri tra dramma e commedia: i suoi lavori hanno sempre guardato più a Carver e Woody Allen che non alla prosa apocalittica e al pastiche postmoderno e disperato di De Lillo.
White Noise è oggi evidentemente anche un’allegoria del nostro passato più recente, fatto di mascherine, distanziamento, ossessione per la cura da un lato e teorie cospiratorie, alternative, negazioniste dall’altro.
Tuttavia il film non riesce mai davvero a farsi riflessione in profondità sulle ansie della contemporaneità, persino quelle più prossime. La satira non affonda gli artigli e Baumbach rimane in superficie, più preoccupato di alimentare la sua dimensione realistica in un universo che sembra quasi teatrale, piuttosto che il suo portato politico e ideologico.
L’attacco alla dimensione paranoica del capitalismo, delle sue derive negazioniste, che sfruttano l’ingaggio potente della paura, è blando e si affida più alla parole che non al racconto e alle immagini. “La famiglia è la culla della disinformazione mondiale”: eppure Baumbach non riesce mai davvero a mostrarci il rumore bianco che ottunde la vita dei suoi personaggi, oltre ad affermarlo. Il film arranca cercando di rinchiudere il microcosmo di De Lillo dentro le due ore e quindici di White Noise, rimanendo affannosamente sempre un passo indietro, incapace di essere davvero radicale e allucinato, in un adattamento che pare lontanissimo dal suo universo di riferimento, se non per il milieu accademico del protagonista.
Peccato aver sprecato il personaggio del prof. Murray a cui Don Cheadle dà la giusta dimensione lucida e allucinata al contempo e che la sceneggiatura serve con almeno un paio di scene formidabili, dopo il monologo d’apertura.
Come spesso accade ultimamente continua a non convincere Adam Driver, fuori parte e fuori tono, rispetto alla mediocrità midcult del suo Jack Gladney e del tutto sprecato Lars Eidinger, a cui il cinema continua a riservare ruoli sempre più stereotipati e marginali, forse inconsapevole della sua statura teatrale. Più centrata è Greta Gerwig nel ruolo misterioso della moglie, a cui il film lascia poco spazio, ma in cui l’attrice e regista sembra alternare l’allucinazione della casalinga disperata all’affettuosità di una madre che pure non sembra ricordare i nomi dei suoi ragazzi.
Spesso la dimensione emotiva del film è demandata interamente alla colonna sonora di Danny Elfman e questo non è mai davvero un buon segno. Nel finale, sui gustosi titoli di coda, un nuovo pezzo degli LCD Soundsystem, New Body Rhumba.
White Noise nonostante sia prodotto in partnership con A24, sembra il più classico dei prodotti Netflix: prestigioso, con un cast di prim’ordine, ma fondamentalmente debole, di pura confezione, senza una vera necessità narrativa a spingerlo.
Una pura formalità.
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