Close

Close **1/2

Il secondo film del belga Lukas Dhont, dopo il notevole esordio di Girl, che nel 2018 aveva conquistato proprio a Cannes la Càmera d’Or, è ambientato nelle Fiandre e racconta la storia di un’amicizia fortissima, quella dei tredicenni Leo e Remi.

Sempre assieme, nei lunghi pomeriggi estivi, con una famiglia o con l’altra, i due condividono ogni cosa.

La madre di Leo ha una coltivazione di fiori, quella di Remi lavora in ospedale, nel reparto maternità.

Al limitare dell’adolescenza, i due sono assieme anche nella nuova scuola, dove però il loro rapporto simbiotico finisce per suscitare qualche gelosia e qualche parola imbarazzante.

Leo nel tentativo di riaffermare la propria identità agli occhi dei compagni, decide di iscriversi a hockey e gioca più spesso a pallone con gli altri, limitando il tempo che trascorre con Remi. Quando una mattina Leo va a scuola in bici senza aspettarlo, tra i due scoppia una lite furibonda.

Il giorno della gita di classe al mare, Remi non si presenta. Al ritorno sapremo perchè.

Il film di Lukas Dhont nel raccontare come la purezza e l’innocenza assoluta e simbiotica dell’amicizia dei due protagonisti si guasti e si trasformi quando entra in contatto con il microcosmo della scuola, cerca di trovare le immagini giuste per raccontare una storia che rimane troppo in superficie.

Cosa provano davvero Leo e Remi l’uno per l’altro? Quello di Leo è davvero una sorta di tradimento? Il film sembra non prendere posizione, preferendo poi concentrarsi su un compito ancor più complesso, confrontandosi con la morte, l’assenza, la fuga dalla realtà e dal dolore.

Il film tuttavia, immerso da Frank van den Eeden nella luce dorata dell’estate, pieno di troppe corse nei campi, troppa bellezza esibita e troppe parole da adulti, pronunciate dai due ragazzini, finisce per essere esageratamente levigato e perfetto nel perseguire un’estetica languida e malinconica, che lascia trasparire una certa ansia manipolatoria.

A toglierci ogni dubbio la colonna sonora d’archi di Valentin Hadjadj, una piaga che sottolinea ogni cosa e che non ci abbandona un momento in oltre due ore.

Dhont fortunatamente evita di colpire troppo basso, raccontando il dolore della perdita e dell’assenza e il film trova proprio negli incontri finali tra Leo e la madre di Remi, prima in ospedale poi in auto, una sua commozione sincera.

Peccato che nel film emerga un eccesso di scrittura e di programmaticità, che elude tuttavia le questioni complesse, lasciandole solo accennate. E così le famiglie pian piano spariscono, la scuola pure, così come la questione dell’identità sessuale dei suoi protagonisti. Ma anche quello che c’è non è sempre a fuoco. L’idillio iniziale, la rottura centrale, il senso di colpa e l’assenza finale: non c’è mai uno scarto, una deviazione, una increspatura che rompa la compattezza tetragona del quadro.

Il dolore muto di Leo, che non piange, avrebbe meritato più urgenza e immediatezza e maggior rigore nella messa in scena: nonostante nessuno sia più in grado di interrogarsi sulla moralità delle immagini, Dhont non sembra avere ancora pienamente la maturità per raccontare la storia di Close.

Nonostante le buone intenzioni, il suo film rimane un tentativo non completamente riuscito.

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