La moglie di Tchaikovsky **1/2
L’unico russo presente in questo 75° concorso del Festival di Cannes è naturalmente un dissidente. Kirill Serebrennikov, che aveva dovuto lasciare ai suoi attori la presentazione degli ultimi Leto e Petrov’s Flu, perché costretto ai domiciliari nel suo Paese, questa volta c’è.
L’invasione dell’Ucraina l’ha paradossalmente spinto ad un temporaneo (?) esilio berlinese. Le voci scomode come la sua non sono più tollerate in tempo di guerra.
Il suo nuovo film peraltro potrebbe sembrare il meno politico tra i suoi, raccontando con la solita straordinaria fluidità nella messa in scena, l’ossessione amorosa e il matrimonio infelice di Antonina Miliukova, la donna che sposò Tchaikovsky nel 1877, nonostante la sua omosessualità.
Eppure in un Paese che nega ancora pervicacemente non solo l’orientamento sessuale del compositore tardoromantico, una vera gloria nazionale, ma che approva leggi con “lo scopo di proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia“, il lavoro di Serebrennikov assume una dimensione decisamente sovversiva.
Ricostruendo il rapporto tra Petr e la moglie in un’atmosfera sospesa tra immaginazione, delirio, sogno e realtà, il film sceglie un punto di vista solo, quello di una donna decisa a tutto pur di sposare il compositore russo, nonostante i due si conoscessero appena e nonostante le ritrosie evidenti dell’uomo, le cui preferenze sessuali erano già molto chiacchierate.
Ma Antonina ama follemente la musica del Maestro e ama probabilmente l’idea stessa di essere sua moglie, a prescindere dalla realtà della cose.
Il matrimonio in bianco diventa giorno dopo giorno sempre più intollerabile ad entrambi, fino a che Tchaikovsky decide di allontanarsi dalla donna, spostandosi a San Pietroburgo e offrendole un divorzio che le restituisca la libertà.
Ma Antonina non ci pensa neppure ad accettare proposte di comodo: allontanata anche dalla famiglia del musicista, vivrà una vita in prestito, in un modesto appartamento a Mosca, in compagnia di un amante, i cui figli abbandonerà in orfanotrofio.
La morte di Tchaikovsky, nove anni più grande di lei, la farà precipitare nella follia.
Serebrennikov che viene dal teatro, continua a voler elidere ogni punteggiatura cinematografica. Così come in Petrov’s Flu, anche in questo nuovo film il racconto sembra un unico ininterrotto flusso di coscienza. Spesso le transizioni avvengono direttamente in scena, grazie alla scenografia, alle luci, come su un palcoscenico. Il regista usa l’ellissi con straordinaria forza poetica e grande naturalezza: la scena sulla banchina di un treno che unisce andate e ritorni lontanissimi non si dimentica facilmente.
Così come resta paradigmatico l’incipit con i funerali del compositore che riverso nel feretro, alla presenza della moglie sembra resuscitare, come indispettito della sua presenza, persino da morto.
Il tempo scorre davanti a noi e nella vita di Antonina, ma il film racconta l’eterno presente dell’ossessione, dell’amor fou, che non distingue più passato e futuro. Schiacciata dall’indifferenza non solo sentimentale, ma anche emotiva che il musicista sembra provare per lei, la protagonista si rifugia in un immagine idealizzata, immaginaria, di un uomo che non è mai stato quello che l’ha sposata, forse solo per mettere a tacere voci e pettegolezzi.
Il film ha la sinuosità del musical, attraversa stanze, porte, scale, persino finestre ad un certo punto, inondando il quadro di controluce, che creano quelle immagini lattiginose che sembrano uscire dalla mente della protagonista e che ricostruiscono pure magnificamente un tempo di candele, luci fioche e pallidi soli.
Non sempre Serebrennikov riesce a tenere sotto controllo le sue invenzioni visive, la narrazione talvolta gli sfugge di mano, il balletto in prefinale è inutile, sottolineando quello che avevamo già compreso perfettamente.
Il film racconta una figura femminile forse lontana dalla modernità, che nella fedeltà ad un’idea totalizzante e univoca dell’amore, sacrifica se stessa e le proprie ambizioni.
Il suo è tuttavia un grande personaggio tragico che sembra ricordare l’Ida Dalser di Vincere di Bellocchio. Purtroppo però il Tchaikovsky di Serebrennikov resta sempre una figura algida, distante, negando qualsiasi forma di identificazione con Antonina. Non riusciamo mai a capire perché si innamori di lui, perché si rifiuti di accettare la realtà di un uomo meschino, glaciale, che non riesce neppure a guardarla in volto. In tutto questo neppure la musica e il genio giocano davvero un ruolo.
Resta la sensazione amara di aver dissipato amori, passioni, sentimenti.
Estenuante e irrisolto.
In Italia arriverà grazie a I Wonder.
