Top Gun: Maverick

Top Gun: Maverick **1/2

Sono passati oltre trentacinque anni da quando Top Gun, in piena America reaganiana, contribuiva a consolidare lo statuto divistico del giovane Tom Cruise, trasformandolo in una delle star più luminose della Hollywood di fine secolo.

Tony Scott – con Jerry Bruckheimer – ne aveva fatto un manifesto testosteronico dello spirito sbruffone, individualista e competitivo che governava il Paese, nell’ultima fase della Guerra Fredda.

Il protagonista, capace di celare una forza autodistruttiva dietro il suo sorriso contagioso e una faccia da schiaffi, ne era diventato il simbolo: dopo gli antieroi tormentati degli anni ’70, Pete “Maverick” Mitchell manteneva la stessa inquietudine solo superficialmente, mettendo il suo talento e il suo coraggio interamente a disposizione del suo Paese, sia pure in modo indisciplinato e ribelle.

Il giubbotto di pelle, i rayban aviator, la Kawasaki su cui sfrecciare al tramonto: è da qui che riparte il nuovo film, dopo i titoli di testa che richiamano esattamente quelli dell’originale, con una portaerei su cui decollano e atterrano i nuovi jet della marina.

Dopo la vestizione dell’eroe, che indossa letteralmente i panni di una volta, ritroviamo Maverick non troppo distante da dove l’avevamo lasciato. Ancora capitano, incapace di fare carriera, innamorato dell’adrenalina che solo il volo riesce a dargli: nel deserto del Mojave, sale su un aereo sperimentale, per spingerlo fino al limite, salvando il suo team che rischiava di essere chiuso dalla Difesa, interessata a sviluppare droni senza pilota, piuttosto che a finanziare costosi programmi in cui l’elemento umano è ancora troppo centrale.

Quando tuttavia uno Stato Canaglia è pronto a inaugurare un programma di arricchimento dell’uranio in un sito sotterraneo sul fondo di un cratere, Iceman, ora ammiraglio e comandante in capo della flotta nel Pacifico, richiama Maverick in servizio, per insegnare ai migliori allievi del corso dei Top Gun, come riuscire a portare a termine una missione sostanzialmente suicida.

Tra i piloti però c’è anche Bradley “Rooster” Bradshaw, il figlio di “Goose”, il partner storico di Maverick, deceduto durante un’esercitazione, nel corso del primo film.

I rapporti sono tesissimi, il tempo stringe e nessuno sembra in grado di raggiungere gli standard necessari a compiere la missione e tornare sano e salvo alla portaerei, prima della controffensiva nemica.

Nel frattempo Maverick riallaccia i rapporti con Penny, una madre single, figlia di un ammiraglio che compariva nel primo film, a cui ha già spezzato il cuore in passato e che gestisce il bar vicino alla base militare.

Gli elementi del film originale ci sono tutti, solo lievemente aggiornati alla sensibilità odierna: questo rende Top Gun: Maverick un film nostalgicamente fuori dal tempo e dallo spazio, come recita in fondo la dedica a Tony Scott.

Siamo di fronte a una grande avventura d’azione come Hollywood non sembra più capace di produrre. Con una sceneggiatura semplice, ma solida, caratteri schizzati secondo un canovaccio elementare, ma eterno e competente.

Certo, ancora una volta, è un film che non discute la legittimità della missione, attorno a cui ruota l’intreccio. L’insofferenza alle regole, la ribellione del singolo è sempre all’interno di un disegno più ampio, in cui il piano politico e ideale non è mai messo in discussione.

Non è qui che Top Gun: Maverick sceglie di giocarsi il confronto con l’originale, quanto piuttosto su un orizzonte puramente spettacolare ed emotivo.

Le riprese aeree, che occupano una parte essenziale del film, sono a dir poco sensazionali: il lavoro di John Kosinski, del suo direttore della fotografia Claudio Miranda (Benjamin Button, La vita di Pi) e del montatore Eddie Hamilton, fedelissimo delle ultime Mission: Impossible di Cruise, è stupefacente e lascia senza fiato.

Costantemente dentro l’abitacolo occupato dai piloti e poi a sfrecciare nel cielo terso della California, gli aerei e gli uomini di Top Gun: Maverick sfidano la legge di gravità e ogni possibile precedente, con una radicalità che forse solo Howard Hughes aveva sognato di portare a cinema.

Da questo punto di vista, il film è uno spettacolo sontuoso, secco e veloce con un quadro futurista.

La colonna sonora originale era stata composta da uno dei maghi del synth-pop anni ’80, Harold Faltermeyer, assieme al nostro Giorgio Moroder, che vinse l’Oscar per l’iconica hit dei Berlin, Take My Breath Away. Anche nel nuovo film si respira la stessa atmosfera, compresa una nuova versione al pianoforte di Great Balls of Fire: Lorne Balfe ha curato il nuovo score, che assembla  composizioni di Faltenmeyer, dell’immancabile Hans Zimmer e di Lady Gaga, che si ritaglia anche lo spazio per la sua nuova Hold My Hand, che chiude il film romanticamente.

La scrittura di Christopher McQuarrie con Ehren Kruger (Arlington Road, The Ring, Transformers) e Eric Warren Singer (American Hustle), utilizza il canone originale con competenza, al servizio di Cruise e della sua icona.

Gli elementi da commedia romantica e l’ironia sarcastica dell’originale vengono riproposti nelle medesime dosi, mantenendo il sapore di un tempo.

Ma siccome invece gli anni non sono passati invano e il film non vuole occultarlo, Cruise si ritaglia questa volta il ruolo del mentore, del padre putativo, dell’uomo tutto d’un pezzo, capace di prendersi le responsabilità proprie e quelle altrui, ricostruendo i rapporti interrotti e pronunciando faticosamente le parole non dette, cercando di mettere pace nel suo cuore tormentato dal senso di colpa.

“Lascia andare il passato” gli ricorda Iceman e proprio l’incontro con Val Kilmer, l’antagonista di un tempo, è toccante e vero, integrando nella trama del film la malattia che ha colpito l’attore da molti anni, rendendolo quasi afono. E’ uno di quei momenti in cui la vita attraversa lo schermo, in un cortocircuito emotivamente quasi insostenibile. Ma Cruise non è tipo da farsi troppe domande e non sembra uno che lascia indietro i compagni d’avventura.

Eppure una cosa è chiarissima alla fine di questa nuova avventura: il suo protagonista non ha nessuna intenzione di passare il testimone. Così come era avvenuto per Mission: Impossible, con l’introduzione del personaggio di Jeremy Renner,  anche qui Miles Teller e gli altri allievi non si propongono mai per una possibile successione. Il loro ruolo è solo ancillare, subordinato narrativamente, utile a costruire le condizioni perchè la stella di Cruise continui a brillare più forte di ogni altra.

L’uomo che corre nei film dal 1981” continua a farlo anche qui: non solo a piedi, in una breve scena nei boschi, ma anche in moto e ovviamente sui jet spinti a velocità Mach 9, perchè la stasi non gli si addice. Come ha scritto Marzia Gandolfi nel suo illuminante La forma dell’attore, Cruise è come Prometeo che ruba il fuoco agli dei, è quello che nel Brat Pack dei giovani attori che debuttarono nei primi anni ’80 sembrava passare quasi inosservato.

Ma è anche quello che ha lavorato più sodo di tutti, costruendo un pezzo alla volta il suo successo attraverso l’energia, la velocità e soprattutto l’autenticità della performance, che è sempre una performance fisica, perchè il suo è davvero un corpo-cinema.

Nel suo lavoro è difficile immaginare una riflessione sul testo, uno scavo psicologico sul personaggio, mentre è centrale la riaffermazione plastica del suo invincibile ottimismo, della sua morale di eroe-guerriero, con le uniche eccezioni a cui l’hanno costretto i grandi autori (Anderson, Kubrick, Mann), con cui sembra aver smesso di dialogare nell’ultima parte della sua carriera, forse proprio per non incrinare ulteriormente quella maschera che pian piano il tempo rischiava di portargli via.

“Non mi piace quello sguardo”… “È l’unico che ho” risponde due volte il suo personaggio e non è un caso.

Per questo non sappiamo se Top Gun: Maverick funzionerà davvero al box office internazionale. Quanto appeal è rimasto a Tom Cruise, in un panorama post-Covid che sembra premiare solo giovani supereroi mascherati?

Il pubblico dei giovanissimi, che pare l’unico a non aver voltato le spalle alla sala, entrerà in sintonia con questo Maverick? E con un film che sembra parlare più alla generazione dei padri che a quella dei figli?

Lo scopriremo nei prossimi giorni quando il film debutterà in tutto il mondo, dopo l’anteprima al Festival di Cannes.

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