New York 1957. La macchina da presa vola su un cumulo di macerie, di gru, di wreckin’ ball. Sono in corso i lavori per la costruzione del Lincoln Center, il west side operaio di Manatthan sta per lasciare il posto ad un quartiere nuovo, colto, benestante, incurante di quei processi di brutale gentrification, che oggi siamo diventati così bravi a identificare.
In mezzo alle rovine e con lo spettro degli sfratti, due bande giovani si contendono le spoglie di un territorio che presto non sarà più loro: sono i Jets – bianchi di origine polacca, guidati dal biondo Riff, che li ha fondati con l’amico Tony – e gli Sharks – portoricani che hanno identificato nel pugile Bernardo il loro leader.
Tony è appena uscito di prigione dopo aver scontato un anno, per una rissa finita male con un’altra gang. Ha cambiato vita, si è trovato un lavoro nel negozio di Valentina e non vuole più saperne di risse e mischie.
Riff lo convince a partecipare ad una festa, dove Jets e Sharks si affronteranno sulla pista, prima di fissare una resa dei conti più cruenta.
Solo che durante il ballo Tony conosce Maria, la sorella di Bernardo, e se ne innamora. I due fuggono dalla festa e si giurano amore eterno, mentre i loro sentimenti accendono ancor di più la rivalità tra i due gruppi.
Adattando nuovamente per il grande schermo il celeberrimo libretto di Arthur Laurents, con le musiche di Leonard Bernstein e le parole di Stephen Sondheim, che il coreografo Jerome Robbins aveva portato prima a Broadway e poi a cinema nel 1961 assieme a Robert Wise, Spielberg compie un lavoro semplicemente straordinario sul testo originale.
Aiutato, ancora una volta, dal commediografo Tony Kushner (Munich, Lincoln), opera una serie di piccoli cambiamenti, che accentuano il sottotesto politico e ideologico del racconto, senza mai perdere la dimensione emotiva e singolare del lavoro originale.
Spielberg sposta la storia di pochi mesi, sostituisce il personaggio di Doc con una donna di mezza età, Valentina, una portoricana sposata ad un uomo bianco, inserisce quindi le immagini della palestra dove si allena Bernardo e dei grandi magazzini dove Maria lavora di notte, facendo le pulizie: in questo modo il suo lavoro non coglie più la vitalità di un quartiere popolare, in cui giovani ribelli senza una causa erano protagonisti di un grande melodramma sentimentale.
Il suo West Side Story diventa invece un requiem amarissimo e disperato sul sogno americano, sul mito fragile e illusorio della seconda opportunità, in quella terra in cui ciascuno dovrebbe potersi costruire il proprio futuro, cominciando dal basso, con il talento e il duro lavoro.
Spielberg sembra dirci che quel crogiolo di origini, tradizioni, culture diverse, che ha forgiato lo spirito e l’identità americano, ora produce solo diffidenza e odio, dolore e vendetta.
E lo fa non solo con quelle piccole ma significative modifiche nel testo, ma anche con una costruzione visiva sublime, che usa lo spazio di scena per creare barriere, confini, divisioni invalicabili. Basterebbe la scena sulla scala antincendio tra Tony e Maria a mostrare fino in fondo la capacità straordinaria del suo cinema di raccontare attraverso le immagini, la costruzione del quadro, il montaggio, l’angolazione delle inquadrature.
E’ l’ammissione di una sconfitta, per il cineasta degli incontri ravvicinati, dell’inclusione.
La città cambia volto e non c’è più spazio neppure per il sogno. In mezzo ai cumuli di macerie si consuma una tragedia del sangue e dell’orgoglio, che non interessa più a nessuno. Tra poco nelle strade del west side non resterà più nemmeno l’eco di questa storia.
Quando ascoltiamo la celeberrima America, cantata e ballata da Anita, la ragazza di Bernardo in mezzo ai negozi del quartiere ci sembra assai meno gioiosa di quanto la ricordavamo e le note di Somewhere risuonano ancor più dolenti e definitive, quasi come una resa, cantate dalla Valentina, interpretata da Rita Moreno, l’unica reduce del cast originale.
Anche se il suo cinema ha sempre sfiorato la musica, il ballo, la danza, fin dalla sequenza di note di Incontri ravvicinati, passando per il catastrofico 1941 o il numero iniziale di Indiana Jones e il tempio maledetto, fino al musical mancato di Hook e ancora oltre, Spielberg qui fa sfoggio di una maestria nella messa in scena, che lascia, ancora una volta, senza parole.
I suoi celeberrimi dolly, i suoi carrelli, la libertà della sua macchina da presa non sono mai sembrati così necessari: le grandi scene d’insieme e la precisione del montaggio di Michael Kahn e Sarah Broshar, lasciano il gusto di scoprire la bravura dei ballerini e l’interpretazione dei cantanti, senza mai prevaricare.
Il numero Gee, Officer Krupke, spostato all’interno della centrale di polizia è un piccolo capolavoro a sé, così come Cool, con Tony e Riff che cercano di contendersi la pistola, sui resti di un locale con il pavimento bucato o la scena del balcone tra Tony e Maria.
Per non dire della festa nella grande sala da ballo, che sembra uscita dai film della Amblin e che mantiene un equilibrio miracoloso, tra la parte in cui i due gruppi si confrontano sulla pista, come se si sfidassero col fioretto, e il primo incontro romantico tra Maria e Tony.
La luce spesso di taglio di Janus Kaminski, incurante di lens flare e ombreggiature, è meravigliosamente espressiva e riesce spesso ad isolare i personaggi anche nei momenti di maggior intimità.
La scelta di affidare le nuove coreografie al geniale e giovanissimo Justin Peck, che pure recupera parte del lavoro originale di Robbins, si è rivelata indovinata, perchè ripetere il lavoro sensazionale del 1961, la sua modernità, le sue evidenti influenze jazz, sarebbe stato inutile e miope.
Sin dal prologo invece questo West Side Story si dimostra profondamente originale, pur nel rispetto rigoroso di un testo diventato un classico del teatro americano.
Se Rachel Zegler, al suo primo ruolo cinematografico nei panni di Maria, è una bella scoperta, soprattutto dal punto di vista musicale, Spielberg riesce persino nel miracolo di rendere credibile Ansel Elgort, nel ruolo dinoccolato di Tony.
Tuttavia i ruoli migliori di West Side Story sono sempre stati quelli dei coprotagonisti: e qui bisogna dire che l’Anita di Ariana De Bose è poco meno che perfetta, sia nella sua determinazione a vivere fino in fondo il suo sogno americano, sia nel confronto con Maria, dopo la morte di Bernardo, sia nella disillusione finale, dopo il tentativo di stupro.
Bravissimo anche Mike Faist nel ruolo senza speranze di Riff: lui sì sembra sempre uscito da un film di Elia Kazan.
Per Rita Moreno, Kushner ha creato un personaggio ad hoc, regalandole uno dei numeri migliori, cantato tra l’altro dal vivo, e un finale di dolorosa accettazione.
Spielberg ha dedicato il film al padre: il suo disco con le arie del musical è uno dei primi ricordi familiari. Non c’è dubbio che il regista si sia accostato a questo adattamento con la tenerezza e la lucidità di chi ha deciso di andare alla ricerca delle origini della propria ispirazione.
E il suo film è certamente sia un omaggio al genio di Bernstein, Sondheim e Robbins, sia una madeleine sentita e personale.
Ma, come detto, c’è qualcosa di più. C’è l’intenzione di raccontare un’America divisa, ostile, chiusa nel rancore delle parole d’odio. Allora come oggi. Un Paese che ha perso la propria identità e che produce solo frustrazione e povertà, in cui persino la fuga è un’illusione destinata a finire all’alba.
Mai avremmo immaginato in un film di Spielberg un finale così cupo, come quello che chiude il suo West Side Story: c’è ancora dolly ad allontanarsi, ma assomiglia a quello beffardo e amaro di Chinatown.
L’unico grande film di questo Natale. Non perdetelo per nessun motivo.
Io non vedo l’ora di vederlo. Spielberg è un grandissimo regista e in più occasioni ha sempre dimostrato di essere più moderno di tanti altri. Vedendo le immagini di questo remake non posso far altro che rimanere stupito davanti a tanta bellezza
E’ terribile che proprio un patriota americano come Spielberg decida di distruggere l’America stessa attraverso il genere americano per eccellenza: il musical. E’ terribile perché l’America non sta da nessuna parte. Né negli immigrati, né tra i bianchi che sono altrettanto poveri e miseri. Ogni volta che li inquadra sembrano un branco di lupi affamati e coi visi scavati. Solo Trump poteva ridurre un ottimista patriottico come Spielberg a questo