Il terzo film da regista di Aaron Sorkin è una commedia agrodolce dietro le quinte di una delle sit-com più note nella storia della televisione americana.
I Love Lucy, prodotta dalla CBS, grazie al contributo di Philip Morris è stata fin dalla prima delle sue sei stagioni, una delle trasmissioni più vista della tv americana degli anni ’50, la prima a superare il muro dei 10 milioni di spettatori, guadagnandosi la copertina di Time Magazine.
In Italia tuttavia si sono visti solo 13 episodi della prima stagione, molti anni dopo nel 1960, mentre il resto è rimasto a lungo inedito.
Show pionieristico, scritto per la prima volta per un ensemble cast e girato con tre macchine da presa in pellicola 35mm davanti al pubblico che affollava le gradinate dello studio di posa, I Love Lucy ha vissuto degli alti e bassi dei suoi stessi protagonisti, l’attrice Lucille Ball e il musicista di origini cubane Desi Arnaz, una coppia nella vita e sullo schermo.
I due si erano conosciuti sul set di un musical alla RKO nei primi anni ’40 e avevano deciso di condividere fama e successo.
Lucille era stata vent’anni sotto contratto con la RKO, ma a 34 anni la casa di produzione aveva deciso di rinunciare a lei, che non era mai riuscita a diventare una star. La Ball ricominciò così dalla radio, attirando l’interesse della nascente CBS: fu lei ad insistere perchè sullo schermo il ruolo di suo marito fosse interpretato realmente dal suo vero compagno, nonostante le resistenze di network e sponsor che temevano che il pubblico americano non avrebbe gradito le sue origini latine.
Nella sit-com mentre Desi interpretava Ricky Ricardo, bandleader e musicista newyorkese, a Lucy era stato assegnato invece il ruolo della casalinga, decisa a provare di avere un talento per lo showbusiness.
Durante la seconda stagione tuttavia Walter Winchell, nel suo popolare programma radiofonico di news e gossip rivelò che Lucille quando si era registrata per votare la prima volta negli anni Trenta si era dichiarata comunista.
Erano gli anni della paranoia anti-comunista, rilanciata dalle iniziative della commissione del Senatore McCarthy. Ma durante la sua audizione al congresso, Lucille aveva dichiarato di averlo fatto per non dispiacere al nonno e alla sua famiglia e la questione era stata rapidamente chiusa.
Non così per la stampa, evidentemente.
Il film di Sorkin si apre proprio con quella rivelazione, che incrina il rapporto idilliaco tra Desi e Lucy e il network.
Contemporaneamente Lucy è rimasta incinta del suo secondo figlio, nonostante il marito sia sempre più distante da lei e forse la tradisca nelle sue lunghe serate a giocare a carte.
Come raccontare al pubblico americano la gravidanza? I produttori vorrebbero occultarla e tacerla, ma Lucille e Desi sono intenzionati ad introdurla invece nella serie senza celare nulla: anche Lucy sarà in attesa, come Lucille.
Sorkin ci racconta questa settimana chiave nella storia dello show, da dietro le quinte: costruendo una sorta di falso documentario, con le testimonianze di alcuni dei personaggi minori molti anni dopo, con le riunioni della writers room dove si scrivono gli episodi e si cercano le battute giuste, con le prove che precedono la registrazione, le discussioni con il network e gli sponsor o con gli altri attori.
Ma è soprattutto il rapporto tra Lucille e Desi ad essere al centro della scena, davanti e dietro la macchina da presa.
Nella settimana più difficile della sua vita la protagonista sta cercando di resistere alle accuse di antiamericanismo che la stampa scandalistica le getta addosso assieme alle infedeltà del marito, mentre combatte con lo showrunner, con un regista inesperto e con gli scrittori poco coraggiosi, cercando di migliorare la puntata settimanale, perchè in fondo in mezzo alla tempesta, la cosa più semplice è continuare a lavorare, con professionalità.
Quella stessa professionalità che le farà richiedere il divorzio da Desi solo la mattina dell’ultima puntata recitata assieme nel 1960.
Sorkin regista tuttavia normalizza ancora una volta il potenziale incandescente dei suoi copioni: la sua messa in scena è come sempre ordinaria, poco più che corretta, senza inventiva e senza coraggio, mentre i suoi dialoghi restano formidabili macchine complesse, capaci di tenere assieme delusioni personali e amarezze di scena, provocazioni che rilanciano temi attualissimi e capacità di raccontare la realtà dietro la scena pubblica.
Per se, Sorkin ha però sempre scelto i suoi copioni più tradizioni nella struttura drammatica e questa volta non l’aiuta neppure la direzione degli attori: la Kidman purtroppo sembra recitare costantemente con una maschera, tanto privo di espressione è diventato il suo viso. Il trucco esagerato, per farla assomigliare alla Ball non l’aiuta e lascia un’impressione complessivamente sgradevole e forzata.
Bardem se la cava meglio con un personaggio tuttavia più semplice: il latino esuberante, egoista e fedifrago, che tratta la moglie con un certo inevitabile paternalismo lo inchioda tuttavia ad un cliché che fatica a scrollarsi di dosso.
I caratteristi interpretati da J.K. Simmons e Nina Arianda, nei panni di William Frawley e Vivian Vance, che nello show interpretano i Mertz, i migliori amici dei Ricardo, vecchi attori di vaudeville, hanno sostanzialmente una scena a testa e poco più, mentre più complesso è il ruolo di Alia Shawkat, che interpreta la sceneggiatrice Madelyn Pugh, la più giovane del team di scrittori, che ha segretamente il compito di far sembrare meno stupida Lucy, aggiornando le sue battute alla sensibilità di un giovane donna americana degli anni ’50.
Dopo aver lavorato con Netflix, Sorkin passa alla concorrenza di Amazon, senza tuttavia aggiungere molto a quanto già sapessimo sul suo lavoro di scrittore e regista, anzi cristallizzandone forse il giudizio, in modo definitivo.
A differenza de Il processo ai Chicago 7 questa volta inoltre il suo film è anche piuttosto discutibile dal punto di vista politico, chiudendosi con una telefonata di J.E.Hoover che strappa applausi solo al pubblico degli anni ’50.
Senza scosse.