Il carcere di Mortana, immerso nella natura scabra, rocciosa e imponente della provincia di Sassari, sta per essere chiuso per sempre.
Le guardie carcerarie si ritrovano attorno ad un falò l’ultima sera prima di abbandonare la grande e impenetrabile struttura, ormai fatiscente.
La mattina tuttavia la direttrice comunica a tre di loro che dodici detenuti dovranno rimanere a Mortara finchè non gli sarà trovata un’adeguata soluzione di trasferimento.
Nessuno sa quanto potrà durare questo limbo, ma i servizi tuttavia restano sospesi, le visite interdette, la mensa chiusa.
Radunati i detenuti nell’area centrale e circolare del carcere, il funzionario Buonocore e l’ispettore Gargiulo, il più anziano in servizio, cercano di amministrare un tempo indefinito, in uno spazio che sembra ricadere addosso a chi è rimasto.
Guardie e detenuti sono tutti prigionieri ugualmente, costretti negli spazi angusti, nei corridoi rotti dalle sbarre, nelle routine di sorveglianza che seguono le medesime regole non scritte.
La tensione che aleggia nell’aria ferma di quegli spazi senza finestre finisce per esplodere quando i detenuti, guidati dall’anziano camorrista Lagioia rifiutano i pessimi pasti consegnati da un catering esterno.
Gargiulo dovrebbe far rapporto alla direttrice ormai lontana, ma preferisce ascoltare invece le richieste di Lagioia.
Nel frattempo un ragazzo di vent’anni, Fantaccini, ritorna a Mortara dopo l’ennesimo scippo, in attesa di processo.
Il film di Leonardo DI Costanzo si muove negli spazi fatiscenti dell’ex Casa Circondariale San Sebastiano di Sassari, con una capacità di far recitare le mura, le celle, i corridoi, le cucine.
La sua macchina da presa si sofferma spesso sulle mura esterne imponenti, sui bracci ormai vuoti, sulle porte spalancate e scrostate, sulle brande rivoltate e arrugginite. E’ come se la natura fiera e ostile che circonda la vecchia casa circondariale fosse ormai pronta ad accogliere e far propri questi spazi ormai abbandonati, in cui la presenza dell’uomo è incomprensibile.
Il film vive nel tentativo di far emergere un sentimento di umanità comune tra uomini costretti a condividere lo stesso tempo e gli stessi spazi.
Tra guardie e detenuti c’è una distanza che non si misura solo dal lato giusto delle sbarre, ma che si muove sul crinale della colpa.
Eppure dopo tanti anni e in una situazione di isolamento forzoso, quella distanza pian piano si fa più sottile.
Senza alcun cedimento morale, Gargiulo saprà riconoscere nei dodici detenuti che ha di fronte una dimensione emotiva, che la detenzione non ha del tutto cancellato.
La asseconderà, facendosi garante di una gestione meno rigida delle regole che il collega Coletti vorrebbe imporre con la forza.
Gargiulo e Lagioia inoltre vengono dalla stessa Napoli, ma la legge ha ribaltato la distanza sociale che c’era un tempo. Il figlio dell’umile lattaio è ora padrone del destino dell’altro, come quest’ultimo gli confessa solo alla fine, con una certa perfidia.
Tuttavia il lavoro di Di Costanzo mi pare assai più radicale e ambizioso nel mostrare come quello spazio di reclusione e pena assuma la dimensione metafisica di un purgatorio in terra, in cui la presenza umana è un accidente forzato e alla lunga intollerabile.
Un purgatorio peraltro che accomuna tutti quelli che lo occupano, indifferentemente dai motivi.
Al suo terzo film, dopo L’intervallo e L’intrusa, Di Costanzo continua a raccontare personaggi prigionieri di sè stessi e dei propri ruoli, che cercano di misurare e poi colmare le distanze iniziali.
Questa volta tuttavia ad aiutarlo ci sono un gruppo di attori sensazionale, guidato magnificamente da Toni Servillo e da Silvio Orlando, laconici, di poche parole e molti sguardi, che sembrano occultare malinconie sepolte da una vita chela dimensione concentrazionaria ha reso vuota.
Inizialmente le parti che Di Costanzo aveva proposto ai due attori erano opposte, ma poi il regista ha voluto intelligentemente invertirle, spingendo entrambi verso territori meno scontati: il volto scavato, gli occhiali grandi di Lagioia/Orlando riescono a superare senza difficoltà lo stereotipo conciliante e bonario, che di solito associamo all’attore de Il portaborse.
Ugualmente Servillo tiene a bada la sua espressività e la sua mimica in un ruolo che gli impone il più delle volte un composto e rigoroso silenzio.
Come ha detto l’attore presentando il film, “se fosse uno spettacolo teatrale potremmo divertirci, nel senso più nobile del termine, a scambiarci i ruoli ogni sera, e questo dimostrerebbe ciò che testimoniano i personaggi: che in realtà c’è una sofferenza comune all’interno di quell’universo”.
Straordinaria la colonna sonora di Pasquale Scialò che alterna alla tradizione folkloristica locale, interventi di sole percussioni, che regalano al film una dimensione straniante, tesa, perfettamente indovinata.
Non perdetelo.