Il nuovo film di Pablo Larraín, dopo l’energico e tellurico Ema, è un altro racconto dedicato alla dimensione familiare del Potere, che racconta la crisi del matrimonio tra Diana Spencer e Carlo Windsor, durante i tre giorni trascorsi nella tenuta di Sandringham House in Norfolk, durante le feste di Natale del 1991.
Sono passati dieci anni dal matrimonio più glamour del Novecento, celebrato nella cattedrale di St.Paul a Londra, ma i rapporti tra i consorti sono ai minimi termini.
Siamo in una “favola tratta da una tragedia vera” come ci avverte subito Larraín, prima di mostrare in parallelo l’arrivo della corte nel Norfolk, scortata da carri e militari, con misure di sicurezza eccezionali e quello di Diana, da sola, alla guida di una Porsche blu scoperta.
I preparativi sono impeccabili, il protocollo richiede formalismi a cui Diana fatica ad abituarsi o che forse le sono diventati irrimediabilmente intollerabili e vuoti.
Quando arriva alla residenza, il nuovo responsabile della magione, l’inflessibile Maggiore Gregory, che ha combattuto a Belfast, la pesa su un’antica bilancia, come fa con tutti gli ospiti per onorare una vecchia tradizione e certificare, alla fine dei tre giorni, attraverso un leggero aumento di peso, l’effettiva serenità delle feste trascorse tra pranzi, cene, colazioni, tiro al piattello, caccia al fagiano e cerimonie religiose.
Diana tuttavia soffre di bulimia, vomita tutto quello che mangia e poi saccheggia la dispensa nella notte.
Carlo le ha regalato per Natale una vistosa collana di perle, uguale a quella donata alla sua storica amante: le cose non possono che precipitare nell’incubo, per la giovane e anticonformista principessa, che trova un libro su Anna Bolena, ad attenderla sul comodino, come monito esplicito a sopire i suoi desideri di indipendenza.
Come ci ricorda un cartello apposto nelle cucine “keep noise at minimum, they can hear you“. E in effetti tutto quello che viene detto – forse anche quello che viene solo pensato – arriva alle orecchie della Regina e dei suoi fedeli servitori.
Ogni turbamento, ogni cambio d’abito, ogni tenda lascia aperta, ogni passeggiata notturna, finisce per creare un nuovo casus belli, nella guerra mai dichiarata tra Diana e la famiglia reale.
Infelice e isolata, Diana è costretta ad una rigidità, che si scontra con le sue energie di trentenne ancora infantile: “una bambina non viziata abbastanza” secondo quello che le dice Carlo, nel loro unico dialogo agli estremi di un tavolo da biliardo.
“Devi imparare a fare le cose che odi. Per il Paese”: è questo che il marito e gli altri pretendono da lei.
Perchè alla fine l’unico ritratto che conta, dopo tutte le foto che l’hanno accompagnata in vita, sarà “quello sulle banconote da 10 pound”, come le ricorda la Regina.
A corte sono preoccupati per lei, ma la preoccupazione è tutta rivolta verso l’esterno, nessuno sembra mostrare davvero compassione o anche solo empatia nei suoi confronti.
La residenza è una glaciale fortezza della solitudine, non solo perchè il riscaldamento viene tenuto spento in pieno inverno, ma perchè ciascuno sembra muoversi secondo un protocollo personale organizzato da altri e seguito alla lettera, mentre Diana vorrebbe riprendersi quella libertà, che le infedeltà e il disinteresse del marito hanno reso ancor più urgente.
Gli unici momenti in cui la principessa sembra trovare pace al suo tormento sono quelli con i figli: la notte della vigilia gioca con loro, alla fine li salva dalla caccia al fagiano, frapponendosi ai cacciatori e fuggendo con loro verso Londra, a bordo della sua Porsche.
Nel frattempo Anna Bolena viene a turbare le sue notti insonni e ad indicarle una strada possibile, ma inevitabilmente provvisoria.
Perchè a corte il futuro non esiste e il presente è piegato verso il passato, come racconta Diana ai figli.
Girato anche questa volta in pellicola a 16mm e 35mm e illuminato dalla francese Claire Mathon, con straordinaria naturalezza, in modo da restituire la bellezza fredda e crepitante degli interni e la campagna brumosa e umida degli esterni, Spencer è un nuovo capitolo nell’indagine di Larraín sulla dimensione conformista e opprimente del Potere.
Per la seconda volta, dopo Jackie, il regista cileno si trova a raccontare la storia una donna sola, in un mondo di uomini e tradizioni, con cui è costretta a scontrarsi in modo traumatico, per preservare la propria dimensione personale e il proprio lascito.
Lady D tuttavia è un personaggio molto diverso da Jaqueline Kennedy. La dimensione ideale e collettiva presente nel Mito di Camelot, capace di perpetuare nell’immaginario collettivo l’eredità di una presidenza troppo breve, manca del tutto nella storia di quella che sarebbe passata alla storia come la “principessa del popolo“.
Qui l’orizzonte è assai più ristretto e limitato: a Diana basterebbe essere la madre serena e amata dei suoi figli. Mentre l’anaffettività ottusa e disumanizzante della corte, la obbliga a cercare spazi di libertà che il ruolo le precluderebbe.
“All I need is a miracle, all I need is you” canta Diana assieme a Mike & the Mechanics nel finale, fuggendo da Sandringham House. Un miracolo non troppo complicato, si direbbe, eppure impossibile da raggiungere assieme all’algido e osservante Carlo, che veste sempre quelle due facce che le insegna ad avere: una per l’opinione pubblica e un’altra per il privato. Solo che in quella privata Diana non fa più parte del suo orizzonte d’interesse.
Dal punto di vista narrativo questo Spencer è sì una favola, come annunciato all’inizio, ma una favola dell’orrore: nonostante la principessa sia vissuta per molti anni nella tenuta di famiglia di Park House, che sorge accanto a quella reale, finisce per perdersi nella campagna nebbiosa, fino a quando lo chef Darren accorre in suo soccorso. Il suo arrivo nella tenuta è mostrato da un plongé in campo lungo tra i viali d’accesso che sembrano disegnare un labirinto. Poi la preda/protagonista è costretta in corridoi infiniti, stanze chiuse, pranzi e cene nauseanti, mentre le tende della sua camera vengono cucite e tutti sembrano conoscere i suoi pensieri e i suoi incubi. Alla fine si troverà a confrontarsi con fantasmi del passato nei ruderi della sua casa d’infanzia.
Larraín compone così il suo film con un occhio, che sembra richiamare suggestioni kubrickiane, nel modo in cui sono ritratti gli ambienti, nell’uso dello zoom, dei carrelli laterali e frontali nei corridoi lugubri della residenza regale, persino nel modo in cui gli ambienti sono illuminati e il quadro è composto.
Le stesse musiche di Jonny Greenwood assumono dissonanze inquietanti e sono utilizzate in modo espressivo proprio per far sentire la morsa che si stringe attorno alla protagonista.
Salvo poi aiutare a rompere finalmente la compostezza rigida della prospettiva centrale nel prefinale in cui Diana, rotto l’ossequioso cerimoniale, balla spesso sola e spensierata nelle grandi sale vuote della residenza, avvolta dai movimenti sinuosi di una macchina da presa anch’essa liberata.
Come spesso accade negli horror alla fine la protagonista riesce a fuggire e a mettersi in salvo, in una Londra ordinaria, in cui poter ordinare un hamburger senza timore di essere osservati e giudicati.
“Where Am I?” è la prima battuta della principessa, che si è smarrita ed è entrata da sola in un caffè sulla strada, per chiedere informazioni.
Il tentativo di Spencer è quello di suggerirci una risposta, isolando un brevissimo momento nella biografia della protagonista, prima che gli scandali, le biografie non autorizzate, le confessioni televisive, le rivelazioni dei tabloid, spingessero lei e Carlo verso una separazione, di fatto già consumata da tempo.
Larraín come Tarantino compie un atto di fede nel cinema e cambia la Storia o meglio ne isola un frammento, scrivendo la parola fine, prima che tutto precipiti definitivamente.