Il complotto contro l’America ****
Il nuovo lavoro del giornalista e scrittore David Simon, prestato alla serialità televisiva da oltre vent’anni, è l’adattamento del romanzo ucronico di Philip Roth, scritto nel 2004 e ambientato nei primi anni ’40 del Novecento, nella città di Newark, nel New Jersey, Il complotto contro l’America.
Simon ritorna a collaborare con Ed Burns, dopo aver creato con lui una delle serie iconiche degli anni d’oro della tv americana, quella The Wire dove si fondevano la sua lunga esperienza di giornalista al Baltimore Sun e l’idea ambiziosa di raccontare una città, cambiando ogni volta prospettiva e protagonisti, tentando così la strada del ‘Grande Romanzo Americano’, per immagini.
Il tentativo di Simon, costantemente rinnovato nei suoi progetti successivi (Treme, Show Me a Hero, The Deuce) è sempre stato quello di misurare i cambiamenti sociali, economici, culturali delle realtà descritte, anche attraverso le loro connessioni con le politiche abitative, urbanistiche ed educative e con il milieu criminale.
Lo stile di Simon, pur rimanendo ancorato ad una sapiente tessitura drammatica del racconto dei suoi personaggi – anche grazie alla collaborazione con scrittori come George Pelecanos, Richard Price, Denis Lehane e Ed Burns – lascia emergere come l’ambiente li condizioni, cambi i loro destini e i loro desideri.
Non ci sono semplificazioni nelle serie di Simon, che vivono proprio della ricchezza e della complessità del microcosmo che riescono a penetrare: la Baltimora violenta dei primi anni Duemila, la New Orleans da ricostruire post-Katrina, la Yonkers degli anni ’80 o la Times Square del porno.
Per questo poteva suonare curioso, che Simon si dedicasse invece, con Il complotto contro l’America, ad un romanzo in cui si immagina uno scenario di fantasia, che cambia la storia americana della Seconda Guerra Mondiale.
Tuttavia, se valutiamo con più attenzione il percorso di Simon notiamo come il suo interesse nel raccontare la geografia morale e politica delle città americane e il loro sviluppo urbanistico trovi linfa vitale nelle scelte degli uomini, che le abitano e le guidano.
L’idea di adattare il romanzo di Roth risponde probabilmente ad un’esigenza molto più pressante e contingente, quella di raccontare il trionfo inquietante del populismo, del nazionalismo xenofobo, usando il filtro della storia, della letteratura, senza finire schiacciato dalla cronaca. E costruendo così uno scenario lontano, sinistro, che tuttavia si mostra assai meno ipotetico e irrealistico, di quanto non fosse quando è stato scritto il romanzo, quindici anni fa.
Ed è forse proprio a partire da questa riflessione, che si può trovare il punto di contatto tra l’universo narrativo di Simon e il lavoro di Roth, ambientato nel New Jersey degli anni ’40, scosso dalla candidatura alla presidenza, per il partito conservatore, dell’aviatore Charles Lindbergh, simpatizzante hitleriano, contrario ad ogni intervento in Europa.
Quali conseguenze avrebbe avuto l’ascesa di Lindbergh sull’inquieta comunità ebraica americana?
La serie ce lo racconta, attraverso la storia dei Levin, una famiglia di Newark, che si trova divisa e lacerata dalla svolta conservatrice.
La prima puntata si incarica del compito di presentarceli tutti: il padre Herman, stimato agente assicurativo e appassionato democratico, così come la madre Bess restano decisamente rooseveltiani.
Più complesso il discorso per i figli, incerti tra le convinzioni dei genitori e l’ammirazione e la fascinazione per l’eroico aviatore, che compare sui francobolli della collezione del più piccolo Philip e nei disegni a matita del più grande Sandy.
Il nipote ribelle, Alvin, ancor più radicale di Herman nelle sue idee socialiste, decide invece di passare ai fatti, arruolatosi volontario in Canada, per combattere la guerra in Europa.
Sul fronte opposto c’è la zia Evelyn, la sorella di Bess, che scala le gerarchie del potere, grazie all’amicizia particolare col rabbino Bengelsdorf, uno dei più sinistri alleati di Lindbergh.
Dopo la prima puntata, che serve agli autori per farci entrare nell’atmosfera storica e culturale di quegli anni, presentandoci i protagonisti del racconto, la serie procede implacabile, nella messa in scena di un incubo ad occhi aperti: l’elezione a sorpresa di Lindbergh a Presidente, a cui segue la firma dell’accordo di neutralità con Hitler, l’avvio del programma Just Folks, per disgregare le comunità ebraiche del paese, deportandole nell’America profonda della Rust Belt e del Sud, fino alla recrudescenza del KKK e dei sentimenti antisemiti nella pancia del paese, così come diventa chiaro ai Levin, durante un weekend di vacanza a Washington.
Nel frattempo, la grancassa dei media esalta l’allure eroica del presidente aviatore, mentre le poche voci critiche, come quella di Walter Winchell, un seguitissimo polemista radiofonico, vengono ridotte al silenzio.
I Levin – e noi con loro – scoprono così improvvisamente, che quell’arcadica estate del New Jersey nasconde un Paese violento, ipocrita e intriso di soffocante antisemitismo. Un Paese disposto a rinunciare alla sua libertà, un pezzo alla volta, quasi senza accorgersene.
Simon racconta la discesa nell’incubo dei Levin, con una progressione implacabile, che comincia con le liti in famiglia e poi si allarga a macchia d’olio, travolgendo il lavoro di Herman, le convinzioni dei suoi figli, le preoccupazioni della moglie Bess, quindi gli scontri con Evelyn e con il rabbino, fino alla minaccia della deportazione nel Kentucky.
Il viaggio a Washington e quello nel sud, per recuperare il piccolo Seldon, l’amico di Philip rimasto orfano della madre, bruciata viva dal Klan, sono due piccoli capolavori narrativi, due racconti dell’orrore, incastonati all’interno di questo viaggio emotivo nell’America nazista.
Simon ha scelto di tradire il romanzo di Roth sin dall’inizio, eliminando il racconto in prima persona del piccolo Philip, ma preferendo seguire la storia dei Levin con uno sguardo esterno, oggettivo, che ci racconta meglio come i diversi personaggi si trovino a confronto con l’emergere dirompente di sentimenti e rigurgiti fascisti, che sembravano scorrere silenti, in una società apparentemente rooseveltiana e democratica.
Ha poi scelto di concentrarsi soprattutto sulla parte iniziale e centrale del romanzo, quella più densa e interessante, riservando all’ultimo terzo, solo il sesto dei capitoli televisivi. Non solo, ma con grande intelligenza, ha completamente riscritto il finale, caricandolo di una tensione drammatica e di un’incertezza profetica, sconosciuti a Roth.
Così come accadeva in The Deuce con ‘The Sidewalks of New York’ di Patti Smith, anche questa volta la chiusura è affidata ad una canzone: è la voce di Frank Sinatra, che canta la soave e democratica ‘The House I Live In’, ad avere il compito di racchiudere, in una memorabile sintesi musicale, il ritorno ad una normalità non meno terribile e inquietante dell’incubo fascista, che abbiamo condiviso nel corso delle altre puntate.
I sei episodi sono stati diretti, tre ciascuno, dalla talentuosa Minkie Spiro (Downton Abbey, Better Call Saul, The Deuce, Barry, Fosse/Verdon) e dall’espertissimo Thomas Schlamme (Friends, E.R., The West Wing, The Americans, House of Cards).
Se il primo capitolo risulta un po’ faticoso, nel suo tentativo di mettere in moto il meccanismo drammatico per tutti i personaggi, poi la serie sale di livello e si supera di episodio in episodio, rimanendo incredibilmente fedele al mondo narrativo di Roth e aggiungendo, al contempo, un nuovo formidabile tassello alla carriera di Simon e al suo grande reportage americano.
Nel cast spiccano soprattutto il mellifluo rabbino, interpretato da John Turturro e l’ambiziosa Evelyn di Winona Ryder, una bella donna, a cui le occasioni della vita sembrano essere sempre sfuggite, ma che trova nella devozione alla ‘causa’ e al rabbino, un motivo di rivalsa personale e sociale.
Zoe Kazan, che interpreta Bess nella serie, per la prima volta nella sua carriera, ha evocato il nonno Elia, rompendo così un silenzio, che dura da moltissimi anni, sulla sua figura controversa. Ha ricordato come la Storia americana abbia avuto su molte famiglie, soprattutto di origini immigrate, un peso decisivo e soverchiante. Le ha spinte a mettere alla prova la loro fedeltà alla nazione, ne ha messo in discussione le scelte e i motivi, le ha spinte a fare cose sbagliate.
Eppure, come sembra volerci dire Simon, l’incubo non è ancorato al nostro passato o nascosto nella nostra fantasia di narratori, ma è presente in mezzo a noi, nelle nostre vite, dietro ogni tentativo di adulterare e corrompere la democrazia e la libertà dei suoi meccanismi.
Titolo originale: The Plot Against America
Numero degli episodi: 6
Durata media ad episodio: 60 minuti circa
Distribuzione: HBO dal 16 marzo
Distribuzione italiana: Sky Atlantic da luglio
CONSIGLIATO: agli appassionati di ucronie storiche, ai lettori di Philip Roth e a coloro che hanno a cuore i destini delle nostre democrazie.
SCONSIGLIATO: a coloro che preferiscono l’azione alla riflessione e ai populisti di ogni credo.
VISIONI PARALLELE:
- The Man in the High Castle, la serie Amazon, tratta da La svastica sul sole di Philip Dick, che parte da simili premesse.
- Il conformista di Bernardo Bertolucci e Una giornata particolare di Ettore Scola: due film che raccontano il fascismo da una prospettiva personale, intima, familiare.
UN’IMMAGINE: il piccolo Philip con lo sguardo rivolto al cielo, il rumore degli aerei, che solcano la notte americana: la minaccia della guerra e quella di un presidente fantoccio, che arrivano da un altrove inafferrabile.
Questa è assolutamente da guardare. Una serie molto intelligente e con molte cose da dire e su cui riflettere.