Judy

Judy **

“You won’t forget me, will you?”

E’ questa forse la paura più grande per chi ha vissuto sullo schermo e sul palcoscenico una vita intera, tra il desiderio di un’esistenza ordinaria, qualunque cosa questo significhi, e l’incapacità di fare a meno dello sguardo degli altri, degli applausi, della fama, delle luci al neon sulle locandine.

Siamo a Londra nell’inverno del 1968, al Talk of the Town, un night club alla moda che ospita per cinque settimane il recital di Judy Garland, la diva bambina che travolse Hollywood con la sua voce e la sua presenza, trovando un’identificazione assoluta con la Dorothy de Il mago di Oz, poi piano piano emarginata da quello studio system che l’aveva creata.

Rotto il contratto con la Mgm, un solo grande film negli anni ’50, il capolavoro di Cuckor E’ nata una stella, voluto e prodotto dalla stessa Garland, per dimostrare di non essere un’attrice inaffidabile e prenda dei suoi demoni.

Ma neppure quella performance assoluta fu sufficiente. Vincitori e vinti, Gli esclusi di Cassavetes e Ombre sul palcoscenico furono i suoi ultimi ruoli.

Il film di Rupert Goold, che adatta per lo schermo la piéce teatrale di Peter Quilter, racconta solo gli ultimi mesi tormentati della diva, costretta ad accettare l’ingaggio londinese, perchè negli Stati Uniti nessuno la cerca più: non il cinema, non i locali di Las Vegas, non i club di New York.

La Garland è riluttante, deve abbandonare i suoi due figli più piccoli al padre, il suo terzo marito, da cui ha divorziato e con cui è in corso una battaglia legale, proprio per la custodia dei ragazzi.

Il film di Goold alterna gli alti e bassi umorali della Garland sul palcoscenico londinese, tra depressione e insonnia, curate con pillole e alcool, agli anni giovanili alla Mgm, con il burbero gigante Louis B. Mayer, capace di fare della ragazza della porta accanto, figlia di due attori di vaudeville, una star di prima grandezza.

Ma tutto ha un prezzo e quello pagato da Judy è stata una dieta ferrea a base di anfetamine e sonniferi, ritmi di lavoro infernali e una vita ricostruita sotto i riflettori dello studio, ad uso e consumo del pubblico.

Judy tradisce la sua struttura teatrale, composto di grandi quadri, alternati alle performance della Garland, muovendosi con una certa prevedibilità tra palco e realtà, quasi sempre nello spazio chiuso dei camerini, delle suite d’albergo, delle feste nelle ville hollywoodiane.

D’altro canto Goold, sulla scia dei recenti drammi musicali di grande successo, mutua l’idea di una biografia che alterni talento e ossessione, in modo piuttosto prevedibile, seguendo un canovaccio molto risaputo che cerca di sfruttare la connessione emotiva tra la fragilità della persona e la grandezza dell’artista.

Non è un caso allora che prima del commovente finale on stage, la scena migliore è proprio quella in cui quella connessione è resa esplicita attraverso l’incontro con una coppia di fans omosessuali, che la venerano e la ospitano a casa loro, nell’unico momento veramente familiare, intimo, che il film ci racconta.

In una piccola casa modesta di periferia, su un vecchio piano verticale, Judy canta a mezza voce per loro, e per se stessa, la malinconica e struggente Be Happy. 

Non si riesce davvero a voler male a questo film, nonostante la sua struttura canonica, le sue derive posticce da #metoo retroattivo, e soprattutto nonostante l’interpretazione da incubo della Zellweger, che riempie il film di smorfie, faccette, occhiatacce: tutto un campionario posticcio di overacting melodrammatico, che pure sulla scena non riesce mai a rendere davvero il magnetismo di una performer assoluta, capace nei suoi ultimi anni di raccontare la malinconia di una vita intera con la forza di uno sguardo e con il carisma della sua voce, rotta dal dolore e dagli eccessi.

La Zellweger ce la mette tutta, l’impegno e la dedizione sono apprezzabili, ma non ce la fa quasi mai, nonostante il trucco, la trasformazione fisica e vocale.

Il suo è un ruolo con cui, in un anno senza grandi parti femminili, si può anche vincere l’Oscar, ma è tutto di maniera, sempre sopra le righe, anche perchè gli altri ruoli sono così mal scritti e così marginali, che scompaiono al confronto, lasciando la protagonista con tutto il film sulle proprie spalle.

Non l’aiuta la sceneggiatura di Tom Edge, una vita nella serialità televisiva, che mostra tutti i limiti di un racconto, che deve mostrare gli alti e bassi della vita, senza mai turbare veramente, cercando sempre il coinvolgimento emotivo più semplice, essenziale.

Neppure la lanciatissima Jessie Buckley – dieci anni di gavetta nei teatri del West End, quindi Chernobyl, Wild Rose, Dolittle, il prossimo film di Charlie Kaufman e la quarta stagione di Fargo – nei panni dell’assistente, riesce mai a superare i confini di una parte di puro contorno.

Il film si riscatta solo nel finale, quando finalmente intuiamo la simbiosi assoluta tra artista e pubblico, quando si rompe il muro che divide idealmente proscenio e platea, in un abbraccio ideale, pieno di gratitudine e malinconia.

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