Cena con delitto – Knives Out ***
‘My House, My Rules, My Coffee’.
In questo affilato, intelligente, formidabile Cena con delitto – Knives Out tutto comincia e finisce con una tazza, un semplice oggetto di comune ceramica bianca, con una scritta rossa, che passa dalle mani dell’anziano scrittore Harlan Thrombey a quelle del suo erede, dopo un tour de force narrativo, che consente di svelare segreti e bugie, su cui si è adagiata la sua grande famiglia.
Curioso destino quello di Rian Johnson, il regista di Cena con delitto – Knives Out: dopo la laurea a USC i primi cortometraggi, poi Brick nel 2006, con un debuttante Joseph Gordon-Levitt, lo impone al Sundance e alla Settimana della critica a Venezia.
Il pasticciato The Brothers Bloom è il classico tonfo del secondo film, riscattato prontamente da Looper, nel quale Bruce Willis e Emily Blunt si affiancano di nuovo a Joseph Gordon-Levitt, in un racconto di fantascienza distopica e viaggi nel tempo, che riporta il suo nome sulla cresta dell’onda.
Dirige nel frattempo tre memorabili episodi della serie di culto Breaking Bad e finisce così nella shortlist di Kathleen Kennedy, neopresidente della Lucasfilm: Johnson viene chiamato per scrivere e dirigere l’ottavo episodio di Star Wars, il secondo della nuova trilogia. Gli ultimi Jedi però divide profondamente fans e spettatori e, per la creatura di George Lucas, venduta alla Disney, è l’inizio di un periodo di inatteso e imprevedibile declino.
Tuttavia Johnson ne esce ancor più forte di prima, con alle spalle un blockbuster da 200 milioni di dollari.
Cena con delitto – Knives Out è il suo ritorno a casa, dopo le incomprensioni di Star Wars: co-prodotto con il fidato Ram Bergman, è un’altra esplorazione di genere, tanto apparentemente classica, quanto in realtà sovversiva e politica, con un cast che definire stellare è fin poco e che copre magnificamente almeno tre o quattro diverse età anagrafiche e cinematografiche, dal novantenne Christopher Plummer di Tutti insieme appassionatamente, fino alla ventitreenne Katherine Langford della serie Tredici e al sedicenne Jaeden Martell di IT.
Il protagonista però è Daniel Craig, qui nei panni del famoso detective Benoit Blanc, chiamato a investigare, da un misterioso committente, sull’apparente suicidio del celebre giallista Harlan Thrombey, avvenuto in circostanze misteriose poco dopo il suo 85º compleanno, nella sua grande residenza di campagna.
La polizia locale brancola nel buio e i parenti si affannano a mentire a Blanc, pur avendo quasi tutti un ottimo movente, per volere la morte di Harlan.
La figlia più grande, Linda, ha una grande impresa immobiliare: il marito la tradisce e Harlan sta per rivelarglielo. Il nipote Hugh Ransom è uno scapestrato perdigiorno, che vive grazie alle sovvenzioni del nonno, che tuttavia ha deciso di tagliargli i fondi.
Il secondo figlio, Walt, che gestisce la casa editrice, che pubblica i romanzi di Harlan, vorrebbe cedere i diritti cinematografici a Netflix, ma il padre si è sempre opposto e ora ha deciso di sostituirlo alla guida della società. Suo figlio, il nipote più piccolo del grande scrittore, Jacob, è un fan dell’ultradestra conservatrice dell’alt-right.
La nuora Joni, che ha sposato il terzo figlio di Harlan, prematuramente deceduto, ha un’azienda di cosmetici che se la passa male e fa la cresta sulla retta universitaria della figlia, Meg, che il nonno continua a versare. Ma una volta scoperto l’inganno, il patriarca ha deciso di chiudere i cordoni della borsa, anche a loro.
In casa ci sono poi la domestica Fran e l’infermiera Marta, di origini latine, la vecchissima madre di Harlan, Nana, e un paio di cani da guardia.
Ma se Harlan non si è ucciso, come le prove sembrano indicare, chi l’ha fatto? E perchè?
L’intreccio si complica ancora di più, quando si apre finalmente il testamento del grande scrittore, che contiene amare sorprese per l’avida corte che lo ha circondato in vita.
Ci fermiamo qui, per non rovinare il racconto di un film che merita di essere scoperto passo dopo passo. Anche se, come dice l’investigatore Blanc ad un certo punto, la complessità e le sfumature di grigio non sono nella verità, ma arrivano dopo averla scoperta.
Non è tanto importante sapere com’è morto Harlan. Una confessione sembra chiarire ogni dubbio già nella prima parte del film, solo che Blanc non si accontenta della verità, quella gli arriverà inesorabilmente, seguendo “l’arcobaleno della gravità”: no, quello che conta davvero sono le motivazioni, il carattere, gli argomenti, il senso della giustizia.
Tutte quelle sfumature che ci fanno comprendere, che anche una confessione sincera può essere lontana dal vero e lontanissima dal giusto.
Vestito di tweed, stropicciato e apparentemente ingenuo e sornione, come un tenente Colombo nelle brume del New England, Benoit Blanc ha invece compreso tutto sin dall’inizio, solo che non è sufficiente l’intuito, ci vogliono gli indizi, le prove. E’ un percorso accidentato e tortuoso quello della giustizia, che si nutre di elementi contraddittori.
Non basta neppure stare dalla parte della legge, come afferma tronfio il marito di Linda, parlando di immigrati, con quella bonomia tipica di chi vuole fingere un progressismo, che non c’è.
Ci vuole quell’umanità che Harlan ha riconosciuto e voluto premiare e che Blanc si occuperà di proteggere, nel corso delle sue indagini.
Nel momento più nero dell’America trumpiana, il film di Johnson è attraversato da un chiarissimo sottotesto politico anti-sovranista, inclusivo, solidale, che fa strame del familismo amorale e si fa beffe del potere e delle ricchezze trasmesse senza meriti.
E per farlo non ha bisogno di altro, che di una perfetta struttura di genere, un intrigo da manuale, che rivolta e piega ai desideri e alle paure dei suoi personaggi. Johnson sovverte, quasi senza che ce ne accorgiamo, il meccanismo intimamente conservatore del giallo all’inglese e mostra invece di dimostrare, lasciando passare i suoi messaggi tra le pieghe di un film divertentissimo e intelligente.
Johnson non dimentica mai neppure per un momento, che il meccanismo spettacolare deve funzionare alla perfezione, che le battute e i dialoghi devono arrivare sempre up tempo e che lo spettatore deve sempre essere un passo avanti al protagonista, secondo la lezione hitchcockiana. O almeno, così deve apparire.
Il regista dimostra ancora una volta di padroneggiare il registro comico in modo davvero indovinato e di saperlo inserire nei meccanismi drammatici con grande bravura.
Il monologo di Blanc sulle ciambelle e i loro buchi è un piccolo gioiello surreale, all’interno del film.
Knives Out non cerca il colpo di scena a tutti costi, non imbroglia il suo pubblico, per il solo gusto di guadagnare un momento di stupore. Preferisce seguire i suoi personaggi e la sua storia, consapevole che il meccanismo drammatico e d’identificazione funzionerà a suo vantaggio.
Se non avremo certo nostalgia di quel covo di serpi, che abita la grande casa di Harlan, certamente vorremmo invece ritrovare presto l’investigatore Benoit Blanc in un’altra delle sue indagini. E pare che Johnson ci stia già pensando.
Daniel Craig, lontano dall’impassibilità e dai corpi a corpo bondiani, si rivela attore sopraffino e interprete adeguatissimo, con la faccia mal rasata, gli occhi azzurri troppo chiari e capelli biondo cenere, a dare sostanza a questo americano di seconda generazione, come ci suggerisce il nome francese o forse belga.
Ana de Armas è ormai ben più che una rivelazione e Chris Evans gioca a fare il ragazzaccio, dopo aver passato dieci anni ad impersonare il giusto per definizione, Captain America.
Ma scegliere uno piuttosto dell’altro farebbe un torto alla ricchezza di un cast perfettamente assemblato, in cui non c’è una nota stonata ed in cui tutti evitano di strafare, come spesso accade in questi film corali.
Una nota di merito va al montaggio di Bob Ducsay, che fa scivolare i 130 minuti del film con una velocità e un ritmo invidiabili, mantenendo anche nei flashback dei diversi personaggi, una chiarezza impeccabile.
Cena con delitto – Knives Out è un murder mistery indovinatissimo. Un crowd-pleaser come direbbero gli americani. E’ un esempio di quel cinema-cinema che ormai nessuno sa più fare così bene.
[…] | Marco Albanese @ […]