The Irishman

The Irishman ****

Remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.
Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby

Il corridoio di una casa di riposo. Un anziano signore in carrozzina comincia a parlare della sua famiglia. Il passato comincia prendere forma e sovrappone storie pubbliche e private: la vita può essere forse compresa solo guardando indietro.

Ci ritroviamo così in macchina con il protagonista, Frank Sheeran, nell’estate del 1975, in viaggio da Philadelphia a Detroit. Assieme a lui c’è Russell Bufalino, uno dei boss della Pennsylvania, con le rispettive consorti. L’occasione del viaggio dovrebbe essere il matrimonio della nipote del boss, ma la realtà è molto diversa. Lo scopriremo solo alla fine.

Quel viaggio è la porta attraverso cui Scorsese ci trasporta lentamente nella sua storia.

The Irishman è l’adattamento di Steven Zaillian del libro di memorie I Heard You Paint Houses, che Charles Brandt ha raccolto dalle confessioni di Frank Sheeran, un veterano paracadutista della Seconda Guerra Mondiale, camionista a Philadelphia e sindacalista dei Teamsters, anche grazie ai rapporti con la criminalità mafiosa locale.

L’idea del film, che segna la nona collaborazione tra De Niro e Scorsese, è nata una decina di anni fa, quando i due erano sul punto di portare sullo schermo per la Paramount L’inverno di Frankie Machine di Don Winslow. In preparazione per il ruolo, De Niro legge il libro di Brandt e lo passa a Scorsese: entrambi concordano che il loro film definitivo sulla storia criminale degli Stati Uniti dovrà essere quest’ultimo.

La storia di Frank Sheeran si intreccia con quella di Jimmy Hoffa, il potente leader dei Teamsters, legato a doppio filo con la mafia italoamericana della costa est. E scorre nelle retrovie della Grande Storia del paese, dall’elezione di John Kennedy alla sua uccisione a Dallas, dalla Baia dei Porci fino alla stagione di Nixon e del Watergate.

E’ un racconto che si estende per molti decenni e l’obiettivo di Scorsese è stato quello di mantenere, grazie alla tecnologia, gli stessi interpreti, ormai vicini agli ottant’anni, per tutto il viaggio narrativo.

Lavorare con i suoi attori di sempre, da Keitel a Pesci e De Niro, fino a ritrovare per la prima volta sullo schermo anche il volto iconico di Al Pacino, vero pezzo mancante nella galleria scorsesiana, è una tentazione troppo forte.

E’ un modo anche per chiudere il cerchio aperto tanti anni fa con Mean Streets, Quei bravi ragazzi e Casinò, memorabile trittico sull’american way of life di Cosa Nostra, mostrando quanto il tempo abbia lavorato non solo sul corpo e sul volto degli attori, ma anche sulla percezione romantica di quella vita di soldi facili e pistole fumanti.

Se Mean Streets era il manifesto dei piccoli teppisti di strada, nella New York confusa e notturna dei primi anni ’70, entrambi i film successivi erano già parabole in nero, cadute verso l’inferno, racconti morali. Ma se la meraviglia romantica di Quei bravi ragazzi, con i suoi dolcissimi anni ’60, i locali alla moda e le macchine cromate, si trasformava nella paranoia drogata dei ’70, ancor più radicale era l’approccio di Casinò, una vera a propria sinfonia sul denaro, nella quale l’ossessione per il controllo si scontrava con l’imprevedibilità dei sentimenti e la fallibilità degli uomini, capaci di mandare in frantumi un meccanismo perfetto, ma destinato in ogni caso a finire.

Con The Irishman, Scorsese fa un passo ulteriore, investe la sfera della politica e del potere e forse scrive, nelle tre ore e mezza del suo ultimo lavoro, l’epitaffio conclusivo per i suoi bravi ragazzi.

Una sorta di confessione in punto di morte, nella quale il passato è un’ombra scura, un grumo di colpe e di rimpianti, di fallimenti e orrore, un tempo che non si può più cambiare.

Non c’è davvero nulla da salvare nel mondo di Frank Sheeran, un killer a contratto, un piccolo irlandese con le spalle larghe, destinato a rimanere ai margini della gerarchia criminale, un impiegato che ha fatto il suo lavoro in silenzio, eseguendo gli ordini con la pistola in pugno e pochissimi scrupoli.

Tornato dalla guerra in Italia, Frank trasporta carne nei dintorni di Philadelphia, facendo sparire qualche quarto di bue per il boss Skinny Razor, finchè un guasto al motore, alla fine degli anni ’50, gli consente casualmente di conoscere Russell Bufalino, un simpatico e imperturbabile venditore di stoffe, in realtà uno dei boss più influenti della città, assieme al nuovo capo, Angelo Bruno, ‘il padrino gentile’.

Quando i suoi carichi vengono ‘alleggeriti’ un po’ troppo finisce nei guai, ma è il cugino di Russell, l’avvocato Bill Bufalino, a risolvere la faccenda in tribunale. 

Per Russell, Frank diventa un uomo di fiducia, uno di quelli che ‘dipinge le case’, ovvero che risolve i loro problemi, a colpi di pistola, con qualche schizzo di sangue sui muri.

La sua affidabilità è così proverbiale che Russell introduce Frank a Jimmy Hoffa, il carismatico leader sindacale, che con l’enorme fondo pensione dei Teamsters fa da vera e propria banca alla malavita, ed è finito nel mirino dei Kennedy.

Tra i due uomini nasce un’amicizia solidissima, cementata nel corso degli anni da molte frequentazioni familiari. 

Hoffa è uno dei personaggi pubblici più influenti degli anni ’60, un leone sul palco dei suoi comizi, irascibile e insofferente ai ritardi, goloso di gelato.

Ma Hoffa finisce in carcere per frode nel 1967 e dietro le sbarre ritrova Tony Provenzano, un padrino del New Jersey che controlla le sezioni dei Teamsters della costa est. Tra i due non corre buon sangue e i rapporti si guastano ulteriormente dietro le sbarre. 

Ma Provenzano ha amici potenti in Cosa Nostra e anche quando Hoffa, grazie a Nixon, esce di prigione nel 1971, la sua posizione, all’interno del sindacato che aveva scalato, sin dagli anni ’30, rimane controversa. 

Deciso a riprendersi il potere con ogni mezzo, Hoffa finirà per mettersi contro Fat Tony Salerno, Angelo Bruno e gli altri padrini della East Coast.

Frank Sheeran è un testimone della Storia, un caratterista con un piccolo ruolo su un palcoscenico troppo grande. Lui stesso lo capisce perfettamente, ingranaggio di un meccanismo complesso e opaco, che ha mosso, da dietro le quinte, le grandi svolte del Paese.

Quasi vent’anni di vita pubblica e privata americana, passano attraverso gli occhi azzurri di Frank.

Ma a lui tocca la parte più oscura e marginale: una lunga scia di sangue e violenza, che non porta da nessuna parte, che guasta ogni cosa. Sopravvive a tutti, l’anziano Frank, ma il prezzo è quello di aver visto gli Stati Uniti scivolare dall’innocenza alla paranoia, dall’orrore all’insensibilità.

‘It is what it is’ si dicono i mafiosi, con finto fatalismo, quando la decisione è presa e le conseguenze sono irreversibili e definitive. Nella grande tragedia di The Irishman c’è spazio per la hybris di Hoffa, per il destino evocato dai boss, per il tradimento tra padri e figli e tra fedelissimi amici.

E’ diventato vecchio, Frank, ma che vita ha davvero vissuto? Che cosa ha lasciato alle sue quattro figlie? A Peggy soprattutto che sa, ha sempre saputo, ha intuito ogni cosa e si è sempre rifiutata di parlare, chiusa in un silenzio che i suoi sguardi hanno reso sempre più esplicito.

Alla fine è proprio in quelle parole mancanti, in quell’unico terribile ‘why?‘ di una figlia verso il padre, che Scorsese sembra trovare il senso profondo e shakespeariano del suo racconto.

Un racconto crepuscolare, definitivo, che aveva proprio bisogno di questi attori per essere davvero grande.

Ciascuno di loro infatti porta con sè, sullo schermo, non solo il personaggio che interpreta, ma i ruoli di una vita intera: Pacino è ancora Tony Montana iracondo e istrionico, quando parla con i suoi collaboratori, e Michael Corleone, sul lago, quando viene tradito da Frank e poi nell’abbraccio in auto, un momento prima delle fine.  Harvey Keitel/Angelo Bruno che perdona Bob De Niro/Frank è ancora Charlie con Johnny Boy in Mean Streets, così come Joe Pesci condensa su di sè la calma equilibrata di Joey La Motta e i piccoli gesti di Tommy De Vito, quando inzuppa il pane nel succo d’uva, come nella famosa cena a casa di mamma, in Quei bravi ragazzi.

E poi c’è De Niro, che è l’essenza stessa del cinema di Martin Scorsese. E non solo, perchè qui, anziano sopravvissuto di un mondo che è ormai finito e dimenticato, è anche Noodles, Travis, Monroe Stahr.

La tecnologia di de-aging digitale, messa a punto dalla ILM per The Irishman ha consentito a Scorsese di far recitare i suoi attori, per tutto il corso di un film, che si dilata dalla fine degli anni ’50 al nuovo secolo.

L’effetto è incredibilmente riuscito: sono soprattutto De Niro e Pesci i maggiori beneficiati, perchè il loro arco narrativo è più lungo.

Se è vero, come sosteneva Cocteau, che “il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo, una macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l’invisibile di un aldilà inconoscibile“, queste tecnologie, che sembrano voler negare il lavoro del tempo e della macchina da presa sul volto degli attori, finiscono invece per accentuarne la natura eterea, impalpabile, metafisica, creando nuovi fantasmi, nuovi simulacri di realtà, in un cortocircuito che apre scenari ancora poco esplorati.

Perchè il De Niro ringiovanito che vediamo in azione, nel corso di quasi tutto il film, non è certo quello che ricordiamo nei suoi ruoli del passato, ma è qualcosa di completamente diverso, originale, un’invenzione creata per questo film e per questo film soltanto.

In fondo non è così diverso dal trucco, dalle parrucche, dalle maschere: è tutto parte delle convenzioni del cinema, del patto di verosimiglianza, che il film stringe con i suoi spettatori da oltre un secolo.

Martin Scorsese sceglie per questo suo ultimo viaggio criminale, uno stile che si fa via via più rarefatto, rigoroso, essenziale. Non troverete le sue celeberrime panoramiche a schiaffo, i microcarrelli, le sintesi musicali, il rock’n roll, i piani sequenza pirotecnici, tutto l’armamentario barocco del suo cinema.

Questa volta, assieme a Thelma Schoonmaker e Rodrigo Prieto, ha deciso di affidarsi alla classicità più invisibile, alla semplicità del campo e controcampo, a qualche ellissi di estrema eleganza, ad un commento musicale minimo e anonimo.

Per raccontare la storia di Frank Sheeran e di Jimmy Hoffa, vero e proprio Caronte, che ci traghetta nella controstoria di quei seminali anni ’60 e ’70, Scorsese ha scelto di mettere la sordina ad ogni esuberanza visiva: anche gli omicidi vengono ripresi senza alcuna retorica, in modo secco, spesso fuori campo, come nell’esecuzione sulle sedie di un barbiere. E quando vengono introdotti nuovi personaggi, in sovrimpressione una breve nota, un epitaffio si direbbe, ci informa delle circostanze violente della loro successiva dipartita.

Grande film sul Potere e la sua deriva, come esercizio sterile, brama che corrompe e corrode i suoi personaggi: dopo aver passato la propria vita violenta tra morte e intrighi, che sia un colpo di pistola o un colpo al cuore, in un appartamento vuoto o in una casa di riposo, in libertà o dietro le sbarre di una prigione, la morte arriva a chiedere il conto a ciascuno. Alla fine si è soli, anche quando si riesce a sopravvivere a tutti. E il peso della colpa diventa un fardello insopportabile.

Due scene ci raccontano più di altre il desiderio di Scorsese di fare di The Irishman anche una sorta di testamento personale: quando Frank butta nel fiume le pistole usate per i colpi, una soggettiva impossibile ci mostra il cimitero di armi che giace sul fondo, reperti di un cinema, che non si può più fare. Allo stesso modo finiscono in acqua dei taxi gialli, del tutto simili a quelli usati da Travis Bickle nel capolavoro del 1976: il fiume diventa così una sorta di “cimitero simbolico del suo cinema“, come ha scritto Marzia Gandolfi.

The Irishman, probabilmente il suo gangster movie definitivo, diventa così uno dei film più malinconicamente autobiografici del suo autore, una nuova riflessione sulla colpa e la redenzione, pervaso da quel sentimento morale, diremmo quasi religioso, che da sempre scorre sottotraccia nel suo cinema e che talvolta emerge in modo più potente. Questa volta, evocando forse tutto il cinema che ha amato e di cui è stato testimone, Scorsese cerca per i suoi personaggi un riscatto impossibile. Perchè non c’è mai davvero pentimento, solo un senso di colpa che si agita e si fa più forte, man mano che la fine si avvicina. L’assoluzione allora è solo una speranza, come quella porta socchiusa nel finale.

Lo sguardo, spesso vuoto, di De Niro non è più il suo o il nostro. Non è nel padre solitario che possiamo identificarci, ma forse in quella figlia silenziosa, che continua ad osservarlo – dai gradini di una scala, da una sedia in cucina, dal ciglio di un marciapiede – con impassibile severità, togliendo così ogni fascino residuo alla sua vita criminale e smascherandone le bugie e gli orrori.

The Irishman è una solenne e cupa messa da requiem, senza enfasi, senza romanticismo, senza passioni. Un lungo addio all’innocenza perduta, che non può tornare.

3 pensieri riguardo “The Irishman”

  1. Tre ore di noia e di auto d’epoca. Condite con una notevole dose di gigionismo di Pacino. Brutta fotografia e un finale un po’ bigotto.
    Un po’ di sincerità dottore. S. F.

  2. Se a lei il film ha comunicato solo noia, è un peccato. Certo è un film molto lungo, imperfetto e con un ritmo che si fa via via più lento. Ma a me ha restituto molto. E soprattutto una grande malinconia.

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