Storia di un matrimonio

Storia di un matrimonio **1/2

Il nuovo film di Noah Baumbach, per la prima volta in concorso alla Mostra di Venezia, è la storia di una separazione, dell’assurda acrimonia che coinvolge chi si è amato, ha costruito una famiglia, vedendola di colpo implodere tra liti, avvocati, dispetti, richieste assurde, rimorsi, rimpianti, ricatti e furore.

Baumbach ha dichiarato di essersi ispirato, nel costruire la storia di Charlie e Nicole, alle proprie esperienze personali: la separazione dei genitori e la sua con l’attrice Jennifer Jason Leigh, durata tre lunghi anni.

Scene da una separazione dicevamo, più che da un matrimonio, tra un regista teatrale off-Broadway e la moglie attrice, leader della sua compagnia, che ha deciso di mollare teatro e famiglia, per volare a Los Angeles, per girare il pilota di una serie e riabbracciare la propria famiglia d’origine, in California.

Le promesse iniziali di trovare un accordo amichevole, senza guerre, finiscono quando Nicole assume Nora, un’avvocato di grido, che la spinge sulla strada senza ritorno di un lungo e sgradevole contenzioso con Charlie.

Di colpo la situazione precipita, la distanza acuisce le incomprensioni, il piccolo figlio Henry diventa così un trofeo da contendersi, a colpi di meschinità e cattiverie gratuite.

Il film di Baumbach restituisce la fatica di un evento così traumatico, su cui tutti cercano di speculare. Un grande spettacolo del dolore e del sentimento tradito, nel quale si finisce inevitabilmente per recitare una parte codificata, a beneficio di giudici, assistenti sociali, familiari, avvocati, partner nuovi e vecchi.

E’una sorta di teatro della crudeltà e uno show orchestrato da legali dall’ego smisurato e dalle parcelle astronomiche.

Marriage Story si muove cercando una centralità drammatica interessante, rifugge verità e colpe, concentrandosi sulle conseguenze del conflitto, talvolta sulle strategie puerili per guadagnare campo, in un gioco che avvantaggia forse solo i famelici avvocati americani, squali in un acquario.

Il film segue l’andamento sinusoidale di ogni crisi matrimoniale, che procede tra picchi e stasi fino alla sua conclusione, senza che nessuno dei protagonisti riesca a comprendere come sia solo il tempo a poter sciogliere le questioni più complesse.

Eppure Marriage Story non aggiunge molto a quando il cinema e la vita hanno raccontato molte volte, sul grande schermo e nelle pareti di casa di ciascuno.

Siamo ancora fermi dalle parti di Kramer contro Kramer, il drammone da camera di Robert Benton con Dustin Hoffman e Meryl Streep, peraltro un paio di spanne sopra Driver e la Johansson.

Baumbach confeziona un film anche onesto intellettualmente, non semplificatorio, ma poi si affida interamente ai suoi attori, coinvolgendoli in un tour de force, che non nasconde segreti e infedeltà: ma la struttura narrativa è debole, prevedibile,  senza scosse, i sentimenti piccini, il dramma rimane privato, a meno di non voler considerare come centrale, il lungo litigio tra i due protagonisti, che segna il punto più basso della loro relazione.

Li vediamo accanirsi su stessi e sul coniuge, con una stupidità feroce, senza mai capire il perchè quell’idillio iniziale, sia improvvisamente finito.

Non aiuta il fatto che i due siano un regista e un attrice, una coppia con il cui spleen, ci si identifica a fatica.

Dal punto di vista stilistico, il film alterna lunghi e lunghissimi piani sequenza, a beneficio della performance attoriale, in un impianto quasi teatrale, che alla lunga stanca.

Anche qui, Baumbach non inventa nulla, eppure nel suo cinema, che sembrava destinato ad un allenismo di complemento, Marriage Story segna uno scarto e la commedia familiare lascia spazio ad una sofferenza, che tracima dalla dimensione personale.

La fotografia naturalista, quasi tutta in interni è dell’irlandese Robbie Ryan, già responsabile di The Meyerowitz Stories.

Lo scontro tra il suo cinema iperminimalista e l’incandescenza, che il fallimento familiare dovrebbe rappresentare, finisce per produrre un film un po’ridondante, che si apprezza soprattutto per la prova maiuscola di Adam Driver, che giganteggia su una Scarlett Johansson, mai così fuori parte sul grande schermo: non si può dire che Baumbach l’abbia imbruttita, ma le ha tolto qualsiasi fascino, qualsiasi qualità, facendone un personaggio irrisolto, grigio, di cui non si comprendono mai i motivi e le scelte.

Laura Dern è Nora, l’avvocatessa matrimonialista, con vertiginose scarpe di vernice rossa, pronta a scatenare l’inferno con il sorriso, mentre Ray Liotta è la sua controparte maschile, altrettanto cinico e sgradevole.

Ad Alan Alda Baumbach affida il ruolo dell’avvocato mite, deciso a trovare una soluzione ragionevole, che Charlie finirà per cambiare per un asshole degno di Nora, mandando all’aria un buon accordo già raggiunto, in nome di un malriposto sentimento di rivalsa.

Mentre Driver, sempre di rimessa, rispetto alle iniziative della sua partner sullo schermo, mostra ancora una volta la versatilità del suo registro espressivo, la credibilità con cui ci fa partecipi della sua discesa verso un incubo personale, apparentemente irriducibile.

Baumbach gli regala anche un momento musicale, che suggella emotivamente il film e ne sposta l’asse narrativo, in modo forse definitivo.

Difficile essere davvero neutrali quando si racconta la fine di una storia.

Tuttavia se proprio volete struggervi vi consigliamo ancora il magnifico iraniano Una separazione di Farhadi e Revolutionary Road di Mendes, tratto dal romanzo di Richard Yates con Di Caprio e la Winslet, che pure racconta lo strazio dell’amore che finisce e l’inferno delle disillusioni personali e familiari, ma resta un capolavoro inarrivabile, a cui questo Storia di matrimonio non si avvicina mai, neppure per un attimo.

In Italia dal 5 dicembre.

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