Ideato da Geoff Johns e James Wan, l’Aquaman cinematografico porta sulle sue spalle non solo il peso di Atlantide, ma anche quello di invertire la rotta nell’universo cinematografico DC, confermando il successo di Wonder Woman e facendo dimenticare la sua presenza nel pasticciato e bicefalo Justice League.
Riunito un cast davvero molto pop che va dall’hawaiano tutto muscoli Jason Momoa, all’algida australiana Nicole Kidman, da Temuera Morrison, ovvero il Jango Fett di Star Wars, fino al sommo Willem Dafoe, passando per la bionda, qui rossa, Amber Heard, per il mitologico Dolph Lundgren e il villain Patrick Wilson, James Wan ha potuto lavorare con una certa libertà ad una storia di origini molto classica.
Un viaggio dell’eroe perfettamente tripartito, con il prologo, l’incidente che scatena la fuga, il lungo viatico, che consente al protagonista di trovare dentro di sè forza e consapevolezza e lo scontro finale, con la conquista del suo posto nel mondo sommerso di Atlantide.
Siamo lontani dalle grandi cattedrali della Marvel, dalle narrazioni che si richiamano di film in film, dall’idea del racconto corale, che unisce linee verticali ed orizzontali, costruendo un appassionante romanzo d’appendice, che troverà la sua degna conclusioni in primavera dopo oltre venti episodi.
Eppure questo Aquaman, pur meno ambizioso, dal punto di vista narrativo sembra funzionare bene, senza dover neppure scimmiottare troppo il tono leggero sino all’evanescenza, che i fan dei cinecomics di solito apprezzano nei film della Marvel.
La gravitas, che da sempre accompagna l’universo DC, è solo attenuata dalla presenza di un eroe riluttante e dalla costruzione di un universo subacqueo complesso, coloratissimo e capace di una certa fascinazione visiva.
Aperto da un prologo ambientato negli immancabili anni ’80, Aquaman ci racconta dell’amore di Atlanna – regina degli abissi, promessa sposa ad un Re che non ama – con il guardiano del faro Thomas Curry. Nasce così Arthur, il figlio di due regni apparentemente inconciliabili.
Quando gli emissari di Atlantide pretendono il ritorno a corte di Atlanna, Thomas e Arthur rimangono da soli ad aspettarne il ritorno. Nel frattempo il gran visir del regno sommerso, Vulko, addestra in gran segreto il piccolo Arthur ad essere un vero guerriero, a suo agio tra due mondi.
Quando Orm, il fratello di Arthur, diventa Re di Atlantide, la sua sete di potere lo spinge a progettare di riunire i quattro regni sommersi, per scatenare una guerra contro le terre emerse. Mera, la sua promessa sposa, e Vulko, il suo consigliere, cercano segretamente di convincere Arthur a raggiungere Atlantide, reclamare il regno ed impedire l’escalation militare.
Per battere Orm però, Arthur dovrà recuperare il tridente di Atlan, l’arma magica, appartenuta all’ultimo Re di Atlantide, prima che fosse sommersa.
Inizia così un lungo viaggio nei mondi sommersi e nel deserto, per recuperare l’arma della leggenda.
James Wan, il papà di Saw, Insidious e The Conjuring, forse le saghe horror di maggior successo nel nuovo secolo, dopo aver preso le misure con l’action adrenalinico nell’elegiaco Fast & Furious 7, è stato chiamato a dare sostanza all’universo DC.
Ed il suo Aquaman, al netto di una parte centrale forse un po’ troppo lunga, ci riesce perfettamente, pur scontando alcune tappe di pura exploitation. Soprattutto la parte in cui Arthur e Mera cercano indizi sulla localizzazione del tridente nel deserto del Sahara e poi in un piccolo villaggio siciliano, sembrano aggiunte solo per consentire un certo sviluppo da commedia romantica e per girare un paio di scene d’azione e di inseguimento, che dovrebbero scatenare l’adrenalina. Siamo però più dalle parti di Tomb Rider che di Indiana Jones, con l’eroe guascone, nelle rovine di un mondo perduto.
In realtà sono i momenti più inutili e scontati di un film, che invece quando viaggia nel mare riesce ancora a stupire. In particolare l’attacco alla barca dei voracissimi Trench è un pezzo di bravura, in cui tutto il talento horror di Wan si mostra, per una volta, senza freni.
Anche lo scontro con il mitologico leviatano Karathen è risolto da Wan con una certa intelligenza, così come lo scontro finale con le armate di Re Orm. Ovviamente qui il blueprint è quello delle Guerre Stellari e la caratterizzazione dei personaggi sconta una certa approssimazione da puro archetipo.
Jason Momoa non è certo un attore di grandi sottigliezze interpretative, ma ha la ribalderia sfrontata dell’eroe e una certa simpatia istintiva. E’ l’unico del cast il cui volto non sembri alterato dalla CGI, dal trucco o dalla chirurgia, in un film di troppi inutili e imbarazzanti primi piani.
Inconsueta anche la colonna sonora di Gregson-Williams, con echi elettronici e rivisitazioni hip-hop di classici del passato, che pure gridano vendetta, come Africa dei Toto.
Interessante poi il continuo sottotesto anti-sovranista del film in favore della contaminazione dei mondi, contro le barriere e i confini e la purezza delle specie, per un ambientalismo consapevole e per una leadership misericordiosa: il primo atto di guerra dei popoli del mare nei confronti degli umani è infatti un’onda gigantesca che riversa sulla terraferma la spazzatura scaricata negli oceani e le navi da guerra che lo affollano. La battuta più forte del film è quella che si scambiano la madre Atlanna e il figlio Arthur: What could be greater than a king? A king fights only for his own nation. You fight for everyone.
Rispetto alle ambiguità Marvel, soprattutto quelle di Civil War, qui non ci sono incertezze e lo statuto ontologico dell’eroe è definito sempre in modo problematico, ma decisamente inclusivo e democratico.
Di questi tempi, non è poco.