Spike Lee è noto per essere uno che ci va giù duro. Fra le sue faide più note figura quella con Quentin Quarantino, che accusava di “ridurre un Olocausto al rango di spaghetti western” col suo Django Unchained, la storia di una collaborazione forzata fra uno schiavo (Jamie Foxx) e un cacciatore di taglie (Christoph Waltz). Fra le varie recriminazioni, inoltre, Lee non viveva benissimo l’“infatuazione” di Tarantino per il termine “nigger” – pronunciato 116 volte nel corso di poco meno di tre ore di pellicola.
Per quanto poi in molti si siano schierati con Tarantino, scadendo addirittura nello sfottò della presa di posizione del regista, Lee ha continuato a rifiutarsi di visionare il film o ritrattare le sue affermazioni.
Non sorprende quindi che il suo ultimo lavoro BlacKkKlansman, presentato al Festival di Cannes il maggio scorso e in questo momento nelle nostre sale, faccia pochi sforzi per nascondere una vena furiosamente polemica nei confronti del clima iperrazzista dell’America trumpiana e per i soprusi che la popolazione nera è sistematicamente costretta a subire sin dalle origini della storia della nazione.
In mezzo alle battaglie per i diritti civili dei primi anni Settanta, Ron Stallworth (John David Washington), detective afroamericano neoassunto nella divisione di polizia di Colorado Springs, si infiltra nella locale divisione del Ku Klux Klan servendosi del collega-alter ego Flip Zimmerman (Adam Driver) e finisce per diventarne il capo.
Ironia tranchant, copione scorrevole, recitazione impeccabile. Un peccato per le tante idee abbozzate nella prima parte che non trovano degna conclusione entro il termine del film. Una su tutte la storia d’amore fra Ron e l’affascinante presidente della BSU [Black Student Union] Patrice Dumas (Laura Harrier), che tutto sommato rimane sottosviluppata, benché i loro dialoghi permettano a Lee di dare spazio a qualche pietra miliare della black culture, fornendo spunti d’approfondimento allo spettatore. O ancora, la tematica dell’antisemitismo introdotta dal personaggio di Zimmerman, ebreo, che viene liquidata in poche battute e in una stanza presa in giro dei negazionisti dei campi di concentramento.
Di forte impatto invece il parallelismo, giocato anche su contrasti cromatici, fra il battesimo degli iniziati al KKK, consumato in uno scantinato dai toni glaciali, e una riunione della BSU baciata dalla luce del tramonto, in cui un ospite racconta con minuzia di dettagli grafici le torture subite da un suo coetaneo ai danni dei loro compaesani razzisti. Potentissimo anche l’intervento davanti alla BSU di Kwame Ture (Corey Hawkins), un inno all’orgoglio nero, focalizzato sull’importanza di rimanere uniti e capitalizzare sulle proprie differenze trattandole come pregi, commovente anche per la rappresentazione dei suoi effetti sulla folla di studenti estatici.
Nel procedere della narrazione tutto si trasforma in una grossa allegoria: l’obesa, influenzabile moglie di Felix Kendrickson (Jasper Pääkkönen) è la rappresentazione del redneck medio, che ringrazia devotamente il marito – per traslato, potremmo azzardare un paragone con l’attuale governo statunitense, sempre più lasso nel condannare crimini razziali – per averle dato “uno scopo” e aver sdoganato i suoi più bassi istinti. Il capo supremo del Ku Klux Klan David Duke (Topher Grace), con la sua ridicola e ingiustificata sicumera, barzelletta senza sapere di esserlo, dal vocabolario ristretto e dalle doti retoriche scadenti, richiama l’ormai onnipresente Donald Trump. Non manca poi un ammicco alla problematica tutta repubblicana della gun control,
Finale ineccepibile con qualche minuto di raw footage dei fatti di Charlottesville, Virginia, dove solo un anno fa migliaia di suprematisti della razza bianca, neofascisti, neonazisti, gruppi di estrema destra sfilavano per le strade della cittadina per protestare contro la rimozione di monumenti Confederati da diversi punti d’interesse del Paese.
Una pugnalata allo stomaco, da brividi, fra cori antisemiti, razzisti, apertamente violenti e discriminatori, coronata da uno stralcio di intervista in cui figurano i commenti ambigui e non condannatori di Trump, poi accusato di essersi mantenuto neutro nei confronti della vicenda per non rischiare di inimicarsi una grossa fetta del suo elettorato.
Con gran sorpresa di nessuno, fra i titoli di coda compare come produttore Jordan Peele, già regista di Get Out (2017), che oltre a dare, a detta di molti, un nuovo volto al genere horror, proponeva una satira violenta sul progressismo passivo e di facciata dell’America bianca benpensante.
La volontà di denuncia di Lee e Peele, reciprocamente potenziata, trasuda forte e chiaro da ogni scena. Per quanto il risultato finale di per sé sia già d’impatto, però, a far riflettere dovrebbe essere anche il contesto in cui si colloca: nel corso degli ultimi due anni, due registi del circuito mainstream hanno sentito il bisogno di rimettere le mani sul genere della blaxploitation, che nasce e trova il suo habitat naturale nel clima culturale negli anni Settanta. In altri termini, per essere il più diretti possibile, le denunce alla società avanzate in pellicole di quarant’anni fa, riproposte nel 2017 e 2018, non solo non suonano anacronistiche, ma addirittura vestono il carattere della necessità.
Una considerazione desolante, che dona un retrogusto amaro alle pur numerose risate, che questa black comedy riesce a provocare.