American Gods: storie per gli occhi

Diciamolo subito: American Gods (8 episodi da 60 minuti l’uno, USA, Starz 2017) non è una serie per tutti.

Per chi è adatta: per lo spettatore che non soffre nel lasciar scorrere qualche ora di episodi senza capirci granché; per lo spettatore a cui non dispiace l’idea di giungere all’ultimo episodio e capire che non siamo nemmeno all’inizio della storia e che il bello deve ancora venire e che serviranno cinque o sei stagioni per arrivare da qualche parte. “E che problema c’è?” ti risponderebbe sorridendo Neil Gaiman, che della serie è produttore esecutivo, “Se ti piace …”. In effetti la lunghezza del libro di Gaiman e l’articolazione delle storie avevano finora dissuaso molti dal tentare una trasposizione del romanzo (American Gods è del 2001) e se lo strumento seriale è l’unico in grado di effettuare questa trasposizione, esso va però sfruttato fino in fondo, senza timidezze. E’ anche per questo che lo stesso Gaiman ha condiviso con Fuller e Green spunti e sviluppi narrativi che nel libro sono stati stralciati per necessità editoriali e che quindi sorprenderanno anche i fan del romanzo.

Per chi invece non è adatta: per chi non sopporta slow motion e sangue a fiotti; per chi alza il sopracciglio di fronte ad un utilizzo superficiale di temi e figure religiose o mitologiche; per chi vuole che una stagione lasci qualcosa di narrativamente delineato, magari non chiuso, ma già incanalato su di una strada ben precisa e su cui si può discutere con gli amici in attesa delle immancabili spoilerate della seconda stagione; per lo spettatore che non ama il cinema iperrealista, con i suoi eccessi visivi e cromatici; per quanti pensano che l’unica mitologia degna di considerazione sia quella greco-romana e guardano con snobismo a quelle celtiche, egizie, africane, etc.

Detto questo, il prodotto è di qualità. Attori sul pezzo, personaggi deliziosi, ben delineati e accompagnati da dettagli di grande immediatezza visiva (le mosche che fanno compagnia a Laura Moon, la ‘moglie morta’ interpretata da Emily Browning, sono fantastiche), non mancano colpi di scena e nemmeno ribaltamenti di situazione; basti pensare proprio al personaggio della ‘moglie morta’, verso cui l’atteggiamento emotivo dello spettatore cambia radicalmente durante gli episodi, passando dal disprezzo alla compassione prima e alla complicità poi per finire con identificarsi nella sua rabbia verso gli dei: “Tutto quello che ci è capitato … l’ha voluto un Dio, solo per il gusto di romperci il ca**o?” a cui replica con fredda disillusione il Leprecauno: “E che cosa credi che facciano gli dei? Fanno quelli che hanno sempre fatto … ci rompono il ca**o!”.

La serie è debole nella trasposizione dei miti e in generale c’è una certa confusione tra teologia e mitologia; il tema della fede è abbozzato, spesso in modo superficiale o, quando lo spunto lascia ben sperare, esso non viene percorso fino in fondo (si pensi al dialogo tra uno dei molti Gesù e Shadow Moon, interpretato da Ricky Whittle, nell’ultimo episodio a casa di Easter/Eostre). In generale sembra che alla base della fede ci debba necessariamente essere uno scambio materialistico, come emerge da tutta la puntata sul Leprecauno. Il settimo episodio, uno dei più riusciti, racconta la storia di Mad Sweeney (Pablo Schreiber), un leprecauno alto due metri, e dimostra in modo esemplare la mancanza di sacralità che sta alla base delle storie mitiche raccontate nella serie. In questo episodio ciò che emerge è il tema del raccontare, spogliato di ogni sacralità e di ogni intenzione di ‘ordinare il mondo’: insomma la condizione migliore per apprezzare American Gods è accettare che gli Dei siano solo un veicolo per raccontare storie; perché come dice il Leprecauno chiuso in prigione, alla bella Essie McGowan sono le storie che ci consentono di passare il tempo. E questo, credo, sia un’esperienza che vive ogni spettatore, seriale o meno che sia, nelle varie prigioni in cui la vita ci costringe.

Le storie di American Gods parlano quindi soprattutto agli occhi: lo fanno con una buona dose di ironia, a volte con cinismo e con un’estetica che non evita di passare per molteplici registri: dallo splatter al realismo magico, dall’horror al fantasy, sempre con toni iperrealistici ed accentuati cromatismi (il porpora del primo episodio con la scena di Bilquis, interpretata da Yetide Badaki, che inghiotte nella sua vagina l’amante al termine dell’amplesso, è ammaliante). Se ne volete trarre godimento, abbandonatevi senza troppi pensieri ad un racconto che passa dall’antico al presente con grande leggerezza e in cui i miti passati e presenti del mondo si trovano mescolati come in un frullatore: Odino (un ottimo Ian McShane) e diversi Gesù (uno per ogni cultura), Easter/Eostre (Kristin Chenoweth) e Anansi (Orlando Jones), Vulcano (Corbin Bernsen), e Anubi (Chris Obi), Media (Gillian Anderson), Ragazzo tecnologico (Bruce Langley), Mr. World (Crispin Glover), sono uno a fianco dell’altro per un’esperienza sensoriale di prim’ordine e tutt’altro che conclusa.

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