The Bad Batch **
In una distesa desolata del Texas una comunità di cannibali vive in una realtà quotidiana post-apocalittica. I protagonisti sono Miami Man (Jason Momoa), Arlen (Suki Waterhouse), Jimmy (Diego Luna), The Dream (Keanu Reeves) e The Heremit (Jim Carrey). Dopo l’opera prima A Girl Walks Home Alone at Night (2014), con protagonista una vampira in una città iraniana, la regista Ana Lily Amirpour mette in scena una comunità di cannibali con regole di convivenza e dedita a “normali” faccende quotidiane, come mangiare, parlare e persino amare. Finché qualcuno non sorpassa i limiti consentiti.
Prodotto da Megan Ellison per Annapurna, il secondo film della Amirpour dopo l’horror gentile A girl walks home alone at night è arrivato al Lido con l’aura del film di culto.
Siamo in un futuro imprecisato e distopico, dove coloro che vengono marchiati come Bad Batch – sgraditi per censo, origini, crimini commessi – vengono rispediti oltre confine in un deserto apocalittico che sembra quello di Mad Max, dove ciascuno si organizza come può, creando isole di resistenza più o meno felici.
La protagonista è Arlen, una ragazzina appena uscita di prigione, immediatamente braccata e rapita da un gruppo di culturisti cannibali (?!), che le mozzano un braccio e una gamba.
Prima che anche il resto diventi carne per il barbecue, risce miracolosamente a fuggire. Nel deserto, un barbone silenzioso la aiuta e la trasporta a Confort, un piccolo villaggio, nel quale si è radunata un’umanità disperata e illusa.
A Confort c’è un solo padrone, Dream, che vive in un palazzo con donne incinte, armate fino ai denti, che spaccia droghe sintetiche e tiene a bada i suoi concittadini con le parole d’ordine di una setta.
Quando Arlen ritorna nel deserto e uccide la moglie di uno dei culturisti cannibali e ne rapisce la figlia, il colosso MiamiMan si mette sulle sue tracce…
Con il solito gusto per i panorami del Texas e lo stesso ritmo ipnotico del suo esordio, l’Amirpour questa volta è incapace di costruire un racconto che superi e trascenda il gusto camp di cui è pervaso.
Il film si sfilaccia di fronte ai misteri di Confort, lascia la protagonista un po’ in balia degli eventi, incapace di organizzare davvero gli spunti interessanti che il set e il racconto di genere le avrebbero consentito.
Il film si lascia vedere – a patto di non essere vegani o animalisti – ma non riesce mai davvero a superare la sensazione di troversi di fronte ad un’opera troppo piena di sè, troppo autoconsapevole, tutta costruita a tavolino.
Non bastano un paio di arti amputati, una festa con musica cool e luci al neon, un’allucinazione nel deserto, il continuo richiamo alla saga di Miller e un cast di comprimari di lusso, per trasformare The Bad Batch nel film di culto che vorrebbe disperatamente essere.
Il racconto si trascina stanco, senza interesse, senza mai un’idea, se non un colpo di scena. Rimane, per lo più, il senso dell’incompiuto, dell’occasione perduta, del pasticcio d’autore.